venerdì 27 gennaio 2017

Silvia


Catturava con acume e finezza gli sguardi della gente agli incroci. Si posizionava in ogni lato delle strade cittadine che si intersecavano, per sbirciare, con cautela, le espressioni degli occhi dei passanti. Acciuffava l’attimo come il lampeggiante dei semafori, per sbalordirsi del tonfo al cuore che ne seguiva. Questa gentile cerimonia la svolgeva ogni giorno, quando poteva, a ogni singolo incrocio. Il trucco per non farsi notare troppo era quello di leggere un libro appoggiata a un angolo. S’immergeva nelle parole fino a quando non scattava il rosso, e nell’esatto momento che le auto si fermavano obbedendo al comando, alzava rapidamente i suoi occhi puntando direttamente sul primo viandante che oltrepassava le strisce pedonali.
- Preso! – commentava silenziosamente giuliva dentro di lei. Poi, ritornava a leggere.
- In pratica sono stata in tutti gli incroci del mondo… - così mi disse un giorno a un crocevia.
Ricordo che avevo un appuntamento che si faceva troppo attendere, e siccome me ne stavo fermo a guardare in continuazione l’orologio, a un certo punto, come una lancetta che indica l’ora esatta, mi accorsi di lei. Stetti qualche minuto a osservarla, poi, distrattamente, attraversai la strada nel momento sbagliato. Una macchina inchiodò e suonò con rabbia il clacson. Avevo gli occhi fuori dalle orbite, si erano spalancati, e anche a lei si spalancarono, e tutti gli occhi dei presenti si spalancarono, e anche le porte e le finestre dei palazzi si spalancarono.
Preso dalla vergogna, corsi precipitosamente stralunato verso le sue finestre strabuzzate sul viso.
- Hai una raccolta di sguardi a casa? – le dissi col cuore in gola.
Le sue piccole rughe sorrisero, e per pudore si coprì la faccia con il libro aperto alle pagine 50 e 51.
- Per me gli incroci sono… fammici pensare… - disse abbassando leggermente il libro, leccandosi l’indice per girare con cura la pagina, per trovarsi naturalmente alle pagine 52 e 53, dove finiva il capitolo 2 e iniziava il capitolo 3. I suoi occhi sgranati erano di vari colori: celesti, verdi e marroni. Non feci mai caso al titolo del libro.
Mentre stava pensando intensamente alla risposta, aveva già fulminato tutto il genere umano.
- In realtà… non saprei… hai presente quattro stuzzicadenti piegati nel mezzo a novanta gradi? Senza spezzarli mi raccomando…
- No!
- Li prendi e li unisci a formare una croce…
- E cosa ci dovrei fare?
- Ci metti una goccia d’acqua nel mezzo...
- E cosa succede?
- Si aprono...
- Una goccia di collirio?
- Sì, bravo, ci hai preso in pieno! – e mi fece vedere tutto il bianco che aveva in bocca.
Niente, non seppi più cosa dirle.
Lei apriva stuzzicadenti per trasformarli in stuzzicastelle.



lunedì 23 gennaio 2017

Lobo


Un tenue brusio fece fremere il tonneggiante lobo fino a risalire al punto zero. Si introdusse, come un venticello di aprile, nel canale semicircolare, spalancando con sorprendente facilità la finestra ovale, che aprì la sua bocca stupita, risvegliando la coclea dormiente solo per dar fiato alle trombe. Sul lobo penzolava un diapason che venne scosso ritmicamente dal martello sull’incudine. Bastò un soffio, un’aria melodica, un’intonazione cadente, una misura precisa, un passo morbido, un’andatura costante, una fase della vita, e lui prese a muoversi come un petalo purpureo di una campanula o di un picciolo fogliare di una viola. Il lobo è una minuzia appesa, un particolare complicato, un regno di gomma che si regge su di una architettura complessa, ovvero colei che invita il filo del suono ad addentrarsi nel labirinto: se non stai attento, se non sei sicuro, smarrisci l’equilibrio. E io ero lì, come un funambolo a occhi chiusi, che attraversavo il condotto mordendomi la punta della lingua, per costringermi a provare un piacevole dolore o una spiacevole amnesia che mi sforzai di ricordare. Intonai una lieve musica, piccole note che flettevano le mie corde vocali di un suono gentile appena percettibile. Volevo accedere al tuo sentire per accordarmi con te. Ci fu un attimo che tutto filò dritto, che nulla era imperfetto. Poi, ti toccasti il lobo, tolsi con cura il diapason e lo misi nella mia mano. Ebbi un sussulto, un’oscillazione del corpo, quando vidi quel foro chiudersi velocemente fino a scomparire, prima che pensassi di infilare tutto me stesso, e diventare io l'oggetto appeso. All’improvviso, mi hai mostrato l’altro padiglione e tutto è ricominciato da capo, tale e quale, senza sbavature, senza equivoci, senza malintesi, il processo di rivisitazione del canestro. Ero confuso, quando ebbi le mie mani entrambe impegnate dai tuoi gioielli, ero sconcertato, disorientato, perplesso dal fatto che non sapevo più distinguere l’orecchio sinistro da quello destro.
- Ascolta…
- Non dire altro.


venerdì 13 gennaio 2017

Questo è un bacio

Arrivò bella carica, imbottita di grazia.
Si sedette accanto a me e accese una miccia, e bum, scoppiò a ridere.
L’esplosione fece tremare la terra, mi disintegrò con un morso sulle labbra.
La deflagrazione mi fece chiudere un occhio come una busta di una lettera, l’altro rimase aperto come l'oblò di una lavatrice in centrifuga.
Appoggiò la sua lingua sul mio collo come se attaccasse un francobollo, e senza aver minimamente scribacchiato l'indirizzo, viaggiammo spediti verso lo sghiribizzo.





mercoledì 11 gennaio 2017

Distesa


Eppure, questa ignota distesa, buttata lì, da una valvola aperta di una grande pistola impazzita che spruzza vernice fresca, non è altro che uno scorcio ampio e sconfinato del mio stare qui, seduto, sbalordito dalla rarità che si è manifestata davanti a me. Un frammento che si aggiunge alla mia inadeguatezza, in quanto incredibilmente perplesso dal panorama esterno, simbolo ineccepibile del creato. Eccomi qua, a soccorrere ogni mio cruccio caotico delle mie sciocche prese di posizione, ogni qualvolta che mi faccio sopraffare dalla vulnerabile solitudine. Questa compagnia di colori e luci, del mare e delle montagne, sprazzi di cielo, nuvole attese, chiaroveggenza, sono un balsamo ineccepibile che ammorbidisce con cura maniacale la riccioluta coscienza. Porto il peso dei miei giorni, dei miei ricordi, delle faccende, su questa vetta dove l’eco viene amplificato dai miei occhi, e s’infila in un imbuto immaginario sparendo all’orizzonte, ritornando poi come un boomerang invisibile nel mio zaino, dopo che ha fatto velocemente il giro terrestre rotolando come una biglia sull’equatore. Un grido dalle mie pupille, un laser da supereroe, una scia a forma di anello circolare in questo dipinto semidiurno: la Terra che diventa Saturno. È così crudele questa bellezza che paradossalmente cerco di chetarne la forza, per non farmi travolgere dalla voglia di gettarmi su di essa, senza paracadute, senza ali, senza una ragione, solo la ingenua convinzione di ampliare quella rara beffarda libertà di intendere. Tuttavia, non ho capito niente, benché stia silenziosamente borbottando tra me e me con un ghigno burlone, questo arzigogolato testo che invano provo a sperimentare, per offrire ai lettori un tentativo di poetica e di sintassi che possa soddisfare i palati fini, rimango piuttosto turbato dalla mia inguaribile umiltà d’animo, che molto spesso risulta eccessivamente pudica, davanti alla poesia d’autore. Quindi, non posso che alzare gli occhi al cielo, sperando di trovare, oltre le nuvole, i poeti francesi maledetti, in un tavolino del Bar Paradiso, a bere assenzio e a discorrere di versi con Montale, Pascoli e Ungaretti. Ed io, con servile dovizia, essere il loro cameriere prediletto, colui che prende le ordinazioni sul taccuino, tentando di catturare, a questi clienti ma padroni della poetica, la maniera più consona per cogliere una convincente ed adeguata metrica, che possa darmi una parvenza di credibilità agli occhi dell’umanità intera.
- Hey, ragazzo, portaci tre caraffe di vino e un caffè ristretto e corretto a Ungaretti…
- Corretto come?
Non c’è correzione che io sia abilitato a fare, al massimo posso solo copiare.