venerdì 26 ottobre 2018

Mi sembra di non averlo

Sua madre diceva di lui:
- Mi sembra di non averlo.
Infatti era un bambino che non
disturbava, che non faceva rumore, un bambino a modo. A volte si sentiva come un ascensore vuoto che va su e giù e apre le porte a nessuno, in attesa che arrivi qualcuno a toccare i tasti giusti, dal primo all'ultimo piano. Diventato adulto provò a farsi largo, a farsi notare, ma spesso erano fuochi di paglia, piccoli attimi di protagonismo, solo per creare veloci attenzioni, come quando la gente per strada si gira all'unisono verso un rumore, per poi accorgersi che non è successo niente di strano. Viveva in un piccolo borgo nel centro storico. Teneva sempre le persiane chiuse anche d'estate. La gente che incontrava per strada non lo salutava, e perché mai avrebbe dovuto farlo. Faceva sempre la stessa strada per andare al lavoro, ed entrava nello stesso supermarket per fare la spesa. La cosa singolare era che nessuno si accorgeva di lui, erano tutti così indaffarati che uno più o uno meno intorno non faceva differenza. A lui piaceva molto questa sua capacità di essere invisibile e ne approfittava ogni volta che incrociava uno sguardo curioso spostando i suoi occhi altrove, costringendo la persona che si era accorta di lui a cambiare direzione. Si convinse col tempo che aveva ragione sua madre: lui non c'era, e la cosa non gli dispiaceva. Un giorno, però, trovò un fogliettino nella buca delle lettere, c'era scritto in stampatello: TI OSSERVO TUTTI I GIORNI COL BINOCOLO. Si guardò intorno e poi verso l'alto, in direzione dei tetti, e si sentì nudo. I giorni a seguire diventò nervoso, diffidente, iniziò a guardare negli occhi della gente. Vide i loro atteggiamenti, i loro finti sorrisi, le loro abitudini. Quel messaggio lo catapultò improvvisamente nel mondo circostante: un ascensore che conteneva più gente del dovuto. Tutti a toccare i suoi tasti, a fargli male, a fargli solletico, a dargli fastidio. Su e giù, su e giù, le sue porte che si aprivano ed entravano e uscivano in continuazione estranei al suo interno. Credeva di impazzire, nessun blackout, nessun allarme. Si chiuse in casa e si mise a dormire. In piena notte si svegliò di soprassalto convinto di aver sentito il campanello e corse alla porta, ma non c'era nessuno, probabilmente se l'era sognato. La mattina seguente trovò un altro bigliettino nella buca delle lettere con su scritto bene in stampatello: STAVO SCHERZANDO. Si sentì immediatamente meglio e tornò a essere invisibile, felicemente assente. Passarono gli anni e lui invecchiò come tutti gli esseri umani. Da buon pensionato camminava lento nel solito supermarket e continuava a passare inosservato. Pochi giorni prima che morisse, ma questo lui ancora non lo sapeva, e come avrebbe potuto saperlo, mentre girava la chiave per aprire il cancello, si avvicinò un bambino che gli tirò il cappotto:
- Mi scusi, è vero che lei è famoso?
- E chi te lo ha detto?
Indicando col dito.
- Quella vecchietta col binocolo che vive sul tetto.

Aisha

Erano seduti come se stessero attendendo il futuro prossimo, il suono preciso dell'autunno che soffia sulle foglie labili, greggi spirituali di campanelle vibranti, faticosamente ancora appese sui rami invecchiati al sole d'estate. Matt e Robin stavano lì a respirare un fresco venticello, nato dall'incrocio di refoli d'aria disordinati, giunti in orario dalle montagne e dall'oceano come treni merci senza destinazione, senza stazioni, senza luoghi attesi, un misto di dolce e salato. Matt era un ragazzo particolare, Robin era un signore più particolare di Matt.
- Senti, Robin, ti devo parlare di una ragazza.
- Come si chiama?
- Aisha.
Aisha era partita dall'Italia per Boston mesi prima, per fare una foto proprio a quella panchina dove stavano seduti sopra Matt e Robin.
- Ne conosci il motivo? - chiese Robin.
- No, però conosco la storia di Aisha.
Aisha nacque in una zona sperduta di montagna, sulle Alpi Graie, due o tre decadi fa. Quando venne al mondo non pianse, Aisha incredibilmente rise di brutto. Non faceva altro che ridere anche quando era l'ora della poppata, spruzzava latte materno in ogni dove, rischiando di rimanere soffocata. Sua madre, maestra elementare che adorava i libri di Edgar Allan Poe, non sapeva come farla smettere, soprattutto di notte, quando teneva svegli anche il gallo, il cane, i conigli, le capre e i due leocorni. Era una neonata che si spanciava dalle risate. Perché ridesse nessuno lo sapeva, a parte, forse, i due leocorni che sogghignavano sornioni in disparte. Qualche mese dopo, sua madre, mentre leggeva "Quattro bestie in una", la prese in braccio e provò a farle dire qualcosa.
- Aisha, guardami. Prova a dire ma... ma... mam... ma...
- Ma... ma... ma... Massachusetts.

- Matt, va da lei e falla piangere.
- Dove sono le Alpi Graie?
- Da quella parte.
- Grazie Robin.
- Di nulla Matt...
Matt si alzò, si mise l'indice in bocca, poi, ascoltò col dito umido la direzione del vento, e si allontanò come un cow boy appena sceso da cavallo.
- Matt? - urlò Robin.
- Dimmi...
- Come cazzo si scrive Massachusetts?
- Non lo so... nessuno lo sa a Boston.
All'improvviso, da nuvole di treni a vapore giunti in orario, destinazione lago di Michigan, caddero lacrime di gioia sul Mystic River di Boston capitale del Massachusetts.

Ibiza

Alla fine degli anni ottanta quando ero un neopatentato, ogni volta che si invitava una donzella a uscire, la si portava in cremeria, luogo di tradizione, anche perché la cena era ancora troppo impegnativa per un ragazzotto sui vent’anni come me. Di solito ci si trovava tutti lì a coppie, a strafogarsi di affogati. Io prendevo sempre quello al whisky per dare un colpo salutare alla mia timidezza. La cosa interessante di quel periodo era, che noi maschietti, giravamo con lo stereo in mano, dato che i cellulari non erano ancora stati inventati e i ladri pullulavano nascosti nelle siepi dei parcheggi. Quindi, si andava in giro con queste autoradio pesanti almeno 4 kg – i più fortunati avevano il manico, io no. Chi possedeva un “pioneer” era un figo, chi possedeva un “Kenwood” era anche lui un figo, ma un po’ meno, io avevo un “Grundig” di seconda mano, già vintage in quel periodo. Ora immaginatevi una cremeria piena zeppa di autoradio sul tavolo e di coppiette che succhiano dalla cannuccia affogati di ogni gusto. Si parlava di oroscopi:
- Di che segno sei?
- Sagittario!
- Oh, no, troppo libertino, però meglio del capricorno.
E altri argomenti, come la propria squadra del cuore:
- Non mi dire che sei della Juve!
- Sì.
- Noooo!
Oppure, se Tom Cruise è meglio di Richard Gere, quando per noi maschi Claudia Schiffer le batteva tutte – a parte Edwige Fenech che non nominavamo per pudore.
Dopo aver pagato il conto – pagavamo sempre noi maschietti – ci si infilava in macchina e si inseriva lo stereo con una certa delicatezza, quasi a far notare a lei, facendo l’occhiolino, la cura che mettevamo a infilare questo marchingegno, come per dire:
- Vedi come sono bravo!
In quel periodo la mia cassetta in voga erano i Talking Heads, anche se non disdegnavo i Pink Floyd: musica troppo impegnativa, però a me piaceva. Sta di fatto che una sera, quella splendida giovinotta che mi stava accanto, chiese Sandy Marton, sbottonandosi la camicetta.  L’unica cosa che accumunava me e Sandy e pure la tizia, erano i capelli lunghi (sì, ci fu un periodo che mi pettinavo). Ebbi un sussulto, non volevo che la mia autoradio, ma soprattutto i miei woofer, potessero essere violentati da quel tizio che voleva andare ad Ibiza, ma lei mi persuase, tirando fuori la sua cassetta da discoteca, pregandomi di sostituirla, con tutta la sua capacità di seduzione, mettendo la bocca a forma di culo di gallina. La osservai con lo sguardo alla Terence Hill, un po’ Trinità e un po’ Don Matteo, giusto per mettere insieme il Selvaggio con il Rispettoso. Schiacciai la leva di espulsione e David Byrne si ritrovò nel sedile posteriore. Infilai la cassetta, misi in moto la macchina e ci dirigemmo verso il campo sportivo, luogo dove di giorno c’erano squadre che prendevano a calci una palla e di notte c’erano squadre che si prendevano e basta. Durante il tragitto con una mano guidavo, con l’altra stavo sul rewind cercando “People from Ibiza” e con la lingua limonavo duro avendo gli occhi sulla scollatura, tanto la macchina conosceva la strada. Arrivato a destinazione e parcheggiato tra una Ritmo e una Duna, ecco che partì il pezzo delirante e mi trovai tra le mani le montagne del Gran Paradiso sognando di andare nella calda Ibiza che stava a una quarantina di centimetri sotto.

Molly

Mentre Molly, con la sua delicata prudente mano - una clessidra del tempo - gli accarezzava i suoi capelli neri, con l'intenzione di trasformarli in sabbia, lui stava sdraiato confuso sul divano, a leggere complicate pagine disordinate di un libro di Cortazar.
- Perché leggi sempre cose che non capisci?
- Per far passare il tempo.
Gli tirò appena i capelli e poi se li fece scivolare tra le dita.
- Un giorno mi cadranno tutti, di colpo - le disse, voltandosi, sorridendo con i suoi denti storti. Lei fece un sospiro e lui riprese a leggere.
Era già tardi, la luna fuori era invadente, troppo grande per svegliare erotiche maree. Molly decise di fare un caffè e di mettere su un vinile.
- Paul, ti piace...
- Sì.
Un fruscio e un gorgoglio, e la stanza si riempì di musica e di moka.
Bevvero il caffè bollente con due cucchiaini di zucchero di canna, si accesero la sigaretta e aprirono la finestra. Una nuvola avvolse la luna.
- Domani piove, Molly.
Guardarono sotto, la strada era deserta. Lanciarono le cicche. Volarono via come due fuochi artificiali appena esplosi, due vite andate in fumo che si spegnevano sull'asfalto.
- Non ti amo più, Paul.
- Neanch'io, Molly.
Molly si allontanò nel medesimo istante, durante il quale, la nuvola grigia che avvolgeva la luna, si sfaldò, come vapore acqueo, lucidandola di un argento vivo, che non bastava tutto l'oro del mondo per quanto fosse preziosa in quel momento.
- Io vado a fare un bagno.
Lei si fece scivolare, lungo il suo corpo, il suo aderente vestito e si avviò nuda verso il corridoio. Paul la osservò come faceva sempre, con quello sguardo spento ma con il cuore pulsante nelle pupille da farlo lacrimare, e si chiese quale fosse il motivo vero, per quell'intenso, potente, vivo desiderio che aveva verso quella enigmatica crudele creatura, che giocava con attenta passione ad essere piacevolmente insensibile.
- Non farmi aspettare.