mercoledì 29 luglio 2015

La bella addormentata

Il cielo quella sera era un grande dipinto. Diversi tipi di azzurro sfumavano tra le nuvole. In lontananza due arcobaleni assomigliavano a fette di meloni infilate tra fette di angurie e banane intere: tutt’altro che natura morta. La montagna più imponente del paesaggio definita “la bella addormentata” si svegliò baciata dalla luna ancora opaca. Aveva una gran voglia di muoversi quell’insieme maestoso di roccia. Per chi vive lì, quella montagna offre qualcosa di materno misto erotico, per via di quella vetta appena sotto, che da l’idea di un seno, pronto ad allattare o per essere baciato.
Lui era in viaggio verso a casa. Guidava un percorso mille volte già fatto, quindi poté godersi questo immenso soffitto. Si fermò a fare benzina e respirò l’odore del carburante mischiato coi colori del cielo, e qualcosa che bruciava lì intorno. Mise la pompa al suo posto e pensò a una ragazza. Aveva il vizio di pensare sempre a qualche ragazza quando tornava da quella strada che conosceva a memoria. Andava a periodi, ma era sempre concentrato solo su una. Si prendeva del tempo a esaminarla nella testa, poi, se dopo molti tragitti, non trovava qualcosa che lo facesse fremere, non si prendeva neanche la briga di corteggiarla. Era fatto così, costruiva film che poi smontava se non riusciva a trovare una sceneggiatura adeguata. Ma quella sera qualcosa in lui sembrò diverso. Una ragazza conosciuta da poco aveva fatto breccia nel suo schermo, nella sua cinepresa immaginaria. Aveva soverchiato il suo ruolo da regista e si era presa la scena. A ogni ciack, lei lo sorprendeva, cambiando il copione di lui che era sempre la stessa storia.
- Che stai facendo! – disse rivolgendosi alla montagna.
- Mi sono svegliata.
In realtà era lui che per troppo tempo aveva dormito.

domenica 26 luglio 2015

Taglio

Siamo tanti fili intrecciati, nodi troppo stretti, labirinti senza soffitti.
Un groviglio di ricordi, il tempo fa brutti scherzi.
Se solo trovassimo le porte, quelle chiuse da fuori, avremmo maniglie per aprire spiragli.
Siamo infilati nella via d’uscita, lo zerbino saluta. Pulitevi i piedi, ci sono scelte importanti.
Siamo troppo grandi, dobbiamo acchiappare ogni cosa che ci scappa dalle mani. 
Tratteniamo l’acqua, ma lei sfugge e cade ai nostri piedi.
La vediamo sparire nella terra arida che ha più sete delle nostre ambizioni.
Prendiamo le forbici facendo brandelli, i fili si muovono come tentacoli.
Ogni taglio è un’abitudine divelta, ogni taglio è fare una scelta.
Non abbiamo più spazio per sciogliere nodi, i soffitti sono azzurri per guardarli sdraiati e i fili d’erba sono troppo cresciuti.
- A cosa pensi?
- A prati appena tagliati.


mercoledì 22 luglio 2015

La via lattea

Ricordo come se fosse ieri, quando, in luglio, ci arrampicammo su per le vigne delle colline liguri.
- C’è buio pesto! – dissi scivolando indietro di qualche metro.
- Siamo in Liguria.
Capii la battuta solo qualche ora dopo.
Ci sedemmo su una riva e guardammo il litorale illuminato. Il rumore del mare era simile ai nostri respiri: lui lontano e noi più vicini.
- Guarda, la via lattea! – dissi ancora appoggiando la testa sulla tua spalla.
Tu cominciasti a ridere e ti coricasti per terra. Singhiozzavi di felicità e per un attimo pensai che stessi per soffocare. Quant’eri bella con quegl’occhi chiusi e quella bocca aperta, a tenerti la pancia con le mani, a far confondere i tuoi capelli con i rami.
- Ma quella è la via Aurelia!
E mi desti una carezza.
Non ti dissi mai che i miei occhi erano rivolti al cielo e non alla terra. Ti lasciai questa mia presunta ingenuità, perché l’avrei sempre adoperata per vederti continuamente bella.
- Ti sei offeso? – mi chiesi.
Io ti risposi con un bacio.
- Non è troppo presto?
E un altro bacio ancora.
Quella notte facemmo l’amore, auto e stelle sfrecciarono nella notte inconsapevoli di noi che rallentavamo le nostre vite intrecciate.
Tutto sfugge, tutto passa, tutto torna: io sulla via Lattea e tu sulla via Aurelia.



domenica 19 luglio 2015

Era diventato così


Era diventato così. Sapeva che sarebbe diventato così fin da bambino. Infatti, per diventare quello che era adesso, bastava che si ricordasse com’era stato da bambino. Era convinto che il suo cuore si fosse rimpicciolito, quindi, pulsava come pulsano i cuori infantili: tu tum, tu tum, tu tum. Lo ascoltava bene con la mano sul petto e gli occhi chiusi. Aveva avuto una vita più che dignitosa. Aveva trovato un buon lavoro che gli garantiva quelle cose che tutti vorrebbero: un macchina, un piccolo appartamento, bei vestiti, qualche storia d’amore, la televisione: quelle cose utili al consumo. Prima quelle cose le avevano gli altri, perché da bambino, lui aveva talmente poco che gli bastava. A lui bastava tutto quello che c’era nel suo cortile: le pietre, la terra, le verdure dell’orto, un pallone sgonfio, un trattore di plastica. Un giorno trovò per strada un album delle figurine incompleto e lo portò a casa. Lo nascose in cantina in un baule pieno di ferraglia. Pensò che quando sarebbe diventato grande lo avrebbe completato. Ora che era grande si ricordò di quell’album e capì quanto fosse incompleta la sua vita. Troppi spazi vuoti, troppe figurine mancanti. Rifletteva su questa cosa stando sdraiato sul divano a fissare il soffitto. Non si era mai sentito così ricco senza niente. Tutta la sua vita era trascorsa nella responsabilità e nel dovere. Ogni cosa che faceva era precisa, per elevare se stesso e per essere riconosciuto nella società. Aveva la necessità umana di sentirsi dire ogni tanto “Bravo!” perché così gli avevano detto. Non disdiceva neanche qualche premio economico per il suo diligente modo di fare. All’improvviso era diventato pigro, troppo pigro, quindi stava in una sorta di felicità strana, nel senso che sentiva che doveva fare qualcosa ma che se non la faceva era meglio. Non voleva più fare un cazzo. Non era la noia che lo assaliva, anzi, era la bellezza di eliminare ogni stronzata sul senso della vita. Aveva sentito esperti in materia su come migliorare se stessi, aveva letto molti libri di avventura, aveva incontrato persone degne di ascolto, e alcune ragazze che volevano anche saltargli addosso. In realtà lui ora voleva solo togliere e non aggiungere altro. Voleva togliere tutto quello che il mondo diceva di fare, lui voleva fare il contrario. Il contrario di cosa? Qualsiasi cosa che gli veniva detto era già il contrario del contrario di quello che avrebbe dovuto fare. Non voleva più fare un cazzo. Voleva regalare tutto, quel poco che gli era rimasto. Immaginò di non avere più niente. Immaginò di non avere più sensazioni, emozioni, rabbie, colpe e cazzate varie. Rimise la mano sul cuore e divenne invisibile. Durò pochi secondi che furono eterni.
- È ora di andare a scuola!
- Mamma, io in quel posto di merda non ci voglio andare!

sabato 18 luglio 2015

Era l'anno 3712

Era l’anno 3712 e la terra si fermò e si mise di traverso. Nel senso che il sud aveva la luce perenne grazie al sole e la luna, e il nord la notte perenne, grazie al cazzo. In pochissimo tempo al nord iniziò un’era glaciale: divenne tutto ghiaccio; mentre al sud si stava da Dio, anche perché i venti del nord portavano aria fresca e nuvole di pioggia. Al sud c’era tutto quello che serviva, al nord solo notte e ghiaccio. Infatti al nord scoppiavano guerre in continuazione per avere il possesso di piccole zone fertili, mentre al sud regnava pace, prosperità e felicità. Quindi, ci furono migrazioni di bianchi verso le zone calde del sud. Arrivavano con qualsiasi mezzo possibile via mare: zattere, arbusti di querce e iceberg. Molti morivano annegati, soprattutto gli idioti che pensavano di arrivarci con l’iceberg. A quel punto l’Africa unita, che aveva una moneta unica chiamata “fuck”, si riunì a Bangui, per decidere come risolvere questo immenso problema degli immigrati albini.
Prese la parola il leader del Ciad:
- Ma sapete quanti “fuck” ci costano? Avete visto l’ultimo bilancio? Questa gente sta invadendo i nostri terreni fertili, vogliono rubarci i cocomeri e per di più sono così bianchi che più bianchi non si può. Rimandiamoli a casa!
Quello del Sudan disse:
- Siamo stanchi di dare alcune capanne, tra cui le migliori, a questa gente che puzza di arringa affumicata. Ma li avete visti? Sono bianchi, biondi e con gli occhi azzurri, una razza decisamente inferiore dato che non hanno la melanina, quella sostanza che rende l’uomo superiore grazie alla pelle nera: così è scritto nella nostra sacra cultura. Abbiamo provato in tempi passati esperimenti su questi cadaveri che camminano, ma niente, il loro cervello non risponde alle sollecitazioni chimiche, e quindi ogni volta dobbiamo eliminarne alcuni. E poi non hanno voglia di fare un cazzo. Spariamoli quando stanno per raggiungere le nostre coste.
A quel punto intervenne quello del Mali, più possibilista a una integrazione:
- Dai, ragazzi, non tutti i mali vengono per nuocere.
Anche quello dell’Angola era per l’integrazione, ma a una condizione:
- Va bene, ma solo chi ha un permesso da zappatore.
Tutti si misero a ridere anche quello del Congo.
- Ma quali permessi, suvvia, non scherziamo, sono dei fannulloni rachitici, e non sanno neanche fare i 100 metri piani in meno di 10 secondi. Io propongo di aiutarli là, con campi in erba sintetica e palloni da calcio da noi ben cuciti.
Mentre si discorreva pubblicamente una donna dello Zambia con un bambino in braccio chiese di parlare:
- Ascoltatemi, voi state qui sempre a discutere, ma non potete capire quello che fanno questi bianchi. Chiedono l’elemosina nei parcheggi dei cammelli, puzzano di pesce marcio e tentano di rapire i nostri bambini per mangiarseli. Non se ne può più, ad alcuni di loro avete permesso di vivere in capanne vicine alle nostre. Non possiamo più uscire di casa e mandare i nostri bambini a giocare con i serpenti, perché anche i serpenti se ne sono andati via indignati. È uno schifo. I peggiori sono quelli che indossano maglie con scritte di città nordiche, tentano di violentare le nostre figlie e alcuni sono anche degli omosessuali.
Come disse “omosessuali”, si alzò incazzato quello del Togo (Dove si produce un ottimo biscotto al cioccolato che va a ruba pure in America Latina):
- Basta! Dico basta a questo schifo. Va bene tutto, io non sono razzista (tutti annuirono), ma non possiamo permettere questo scempio. Va bene che puzzano di pesce, va bene che sono bianchi cadaverici, va bene che gli diamo le capanne, ma froci no! Quindi propongo di marchiarli, o meglio di castrarli!
Tutti urlarono di gioia, un sacco di neri che saltellavano.
Quello del Gabon, però, disse una cosa sensata:
- Dai, ragazzi, hanno il cazzo piccolo (Molti annuirono dicendo sottovoce “è vero, è vero”), quindi proporrei di distinguerli con una cosa semplice.
Il popolo urlò:
- Cosa, grande capo del Gabon!
- Direi di mettergli al collo un bel foulard verde.
Una bambina bianca, troppo bianca in quel contesto nero, chiese la parola.
- Io bambina bianca. Avere imparato vostra lingua anni fa. Sapere comunicare con voi. Vorrei continuare a vivere qui, ma mio padre scaduto permesso zappatore. Dobbiamo tornare casa, vi prego, lassù freddo, tanto freddo. Guerre, carestie, malattie. Io bambina avere paura.
E a quel punto che la leader del Burkina Faso, una robusta donna di colore dai modi gentili, disse alla bambina:
- Come ti chiami?
- Chiara! (Dalla folla un piccolo brusio “si chiamano tutte così, dai”)
- Senti Chiara, parli già bene, ma non così bene. Mi spiace, non c’è posto per tutti, non possiamo accogliervi tutti, non sarebbe più il continente nero, diventerebbe il continente bianco e nero, e sai quanto a noi ci stanno sui coglioni quei colori (Tutti risero e iniziarono un coro “chi non salta bianconero è, è, chi non salta bianconero è, è)
Per trecento anni i neri vissero felici e contenti, anche se i bianchi cominciarono a integrarsi in Africa cantando nelle piantagioni di cocomero canzoni che divennero una musica denominata “whites”, che produsse il ”cocco and roll”, che divenne il loro canto di protesta. Anni dopo nel Botswana nacque Lui. Che predicò per tutta l’Africa una nuova visione multiculturale di uguaglianza. Era un mulatto che poi venne ibernato in un iceberg vicino a due ladroni perché ritenuto eretico. Il terzo giorno sciolse i ghiacci e la terra ritornò a girare. Era il 4000 e lui si chiamava “Jesus ibrido”. Le sue ultime parole, prima di ascendere al cielo, furono:
- È una ruota che gira, ragazzi!

mercoledì 15 luglio 2015

Conversazione

- Fammi capire. Vorresti dirmi che questa conversazione esiste perché un tizio scrive quello che stiamo dicendo?
- Certamente!
- Quindi, ogni cosa detta tra noi, è lui che decide, scrivendo.
- Infatti, è così!
- Ma io e te cosa siamo?
- Niente. Pensa che non ci ha neanche descritto. Non abbiamo uno straccio d’identità e non siamo in nessun luogo.
- Ma se non siamo nessuno, perché comunichiamo?
- Perché lui scrive proprio quello che stiamo comunicando.
- E tu come fai a saperlo?
- Non lo so. È lui che sta scrivendo quello che sto dicendo.
- Quindi, scrive che tu sai di lui che sta scrivendo, mentre io non lo so.
- Praticamente sì. Io non so perché so, ma so che lui ha deciso che devo sapere, a differenza di te, che ha deciso, che non devi sapere un cazzo.
- Ma perché io non so e tu invece sai?
- Perché lui continua a scrivere in questo modo.
- E se smettesse?
- Scompariamo dalla scena.
- Ma se non ci siamo?
- Non ci siamo, ma è come esserci.
- Allora. Noi non esistiamo, ma esistiamo grazie a lui che scrive questa conversazione del cazzo.
- Una roba del genere.
- Che storia! Ma lui chi è?
- Non lo so!
- Ma se hai appena detto che lui ti permette di sapere.
- Sì, ma non mi permette di sapere chi in realtà lui sia.
- Ah, bello lui! Ci mette in questa condizione di dialogo ma non dice chi è.
- Guarda, se me lo avesse detto sarebbe uscita da questa conversazione.
- Sta giocando con noi.
- Non dirlo forte, potrebbe arrabbiarsi.
- Ma come fa ad arrabbiarsi uno che scrive le nostre conversazioni.
- Non provocarlo.
- Io mi ribello.
- Non farlo.
- Ma come fai a sapere che non devo farlo?
- Non lo so. Cazzo!
- Ma chi è sto qua, Dio?
- Non esagerare.
- Come ne usciamo?
- Guarda, non siamo neanche dentro.
- Mi sta scoppiando la testa senza averla.
- Non dirlo a me.
- Va beh, io vado!
- Ma dove cazzo vai?
- Te lo ha detto lui?
- Non lo so. So solo che è lui che scrive quello che stiamo dicendo.
- Ho capito, cazzo! Quindi, scrive anche quello che io non so.
- Sì!
- Vaffanculo!
- A chi lo dici?
- A te, a me e a quello che scrive.

martedì 14 luglio 2015

Eric Clapton


E niente, arriva Eric Clapton a casa mia con la chitarra. Fa un caldo come nella Louisiana – io che non ci sono mai stato, ma ho visto dei film dove si sudava molto e c'erano ventilatori. Arpeggia un po’ di blues sul mio divano. Beviamo del the freddo alla pesca. Sembra gradire. Mi dice qualcosa in inglese, io che non so manco bene l’italiano, e gli rispondo “yes”, come quelli che non sanno l’inglese. C’è gente che dice che l’inglese sia una lingua facile, per via dei verbi da coniugare, a parte quelli irregolari che cambiano quando cazzo gli pare. Io non so mai dove cominciare quando devo fare una frase di senso compiuto in inglese, non lo so fare neanche in italiano. Comunque lui suona sta roba tosta. È musica graffiante, come grattugiare sedano sul formaggio grana a spicchi, mischiato con noci a spicchi pure quelli. Mangerei tutto con un cucchiaio e un tozzo di pane. Stare con Eric che suona blues è come masticare un’infinità di gusti, e avere sempre la bocca piena.
- Sei forte! – mi dice in un italiano peggiore del mio.
- Fa hot, amico! – rispondo, mischiando tutto quanto, con la bocca che continua a ruminare.
Lui non ha fame e continua a bere the freddo alla pesca. Fa andare queste corde e si spostano le stelle. A un certo punto mi sembra di sentire applausi provenire dal cortile. C’è un sacco di gente appostata sotto che vorrebbe salire. Hanno tutti una bottiglia di the freddo alla pesca in mano. Eric esce con la chitarra sotto braccio e fa un cenno come il Papa alla domenica in piazza San Pietro. La gente sotto si fa il segno della croce e urla di gioia. Il cortile è pieno, e anche la strada comincia a riempirsi di pubblico con una bottiglia di the freddo alla pesca in mano.
- Let’s go, raga! – dice a tutti.
E tutti salgono a casa mia. Un casino che non vi dico, un caldo infernale. Gente stravaccata che fuma e che chiede sedano grattugiato con grana e noci. Io non ne ho per tutti. Ma ecco che accade il miracolo, Clapton fa una telefonata veloce:
- Ten kg cheese, celery, walnuts… yes… and a thousand bowls and spoons… porta tutto qui… yes.
Un quarto d’ora dopo, c’è un sacco di gente che rumina in casa mia e lui suona come se niente fosse, bevendo litri di the alla pesca.
Poi, a una certa ora, se ne vanno via tutti, portandosi via tutto: le scodelle e le bottiglie vuote.
Clapton mi da una pacca sulla spalla.
- Ti è like? – mi chiede sorridendo come per prendermi per il culo.
- Potevi far better! – gli rispondo come sempre.
Lui non capisce e fa una smorfia, quindi esce suonando un pezzo da lui inventato sul momento dal titolo: “The freddo alla pesca” o meglio “Peach ice tea”.
Quando chiudo la porta, faccio un lungo respiro e poi vado a letto, non prima di aver leccato quello che è rimasto nella mia scodella e nel mio cucchiaio.
- Non succede mai un cazzo!!!

giovedì 9 luglio 2015

La falesia


Mi svegliai con la faccia sulla sabbia. Il sole sorgeva e graffiava la mia schiena. Ero naufragato con la mia zattera senza una bussola e neanche una cartina. Le forze le avevo impiegate per salvare la pelle ustionata dal sale. Respiravo a fatica in quel luogo misterioso, dove una falesia davanti a me, s’innalzava impetuosa verso il cielo, troppo azzurro per essere vero. Mi trovavo in un’insenatura chiuso da quella costa rocciosa. Dietro di me il mare. Quella piccola spiaggia era l’unica via di uscita perché non ero in grado di arrampicarmi, non lo avevo mai fatto in vita mia. Rimasi a fissare quella fascia di granito, per capire quanto potesse essere alta, e a immaginarmi cosa potesse esserci sulla cima. Sicuramente prati verdi e vallate fertili. Quando vidi che si muoveva come una colonna vertebrale di una sirena, pensai a un’allucinazione. Spuntarono due scapole di angelo e nervature mobili di serpente. La roccia respirava. Ondulava tutto, e trattenni il fiato, e diventai rigido come la pietra. Vidi uno spostamento naturale, piccole frane, una testa e un seno che spuntava.
Eri tu, appena sveglia, con gli occhi piccoli come i capezzoli. Eri immensa in quella posizione a forma di treccia, con i capelli che assomigliavano a foreste trasversali dove gli alberi stanno aggrappati alla rupe da radici solide. Ti avevo trovato leggendo il tuo corpo in quella forma a elica. C’era scritto tutta l’eternità, tutte le tue ere, tutte le tue reincarnazioni. Un pezzo di DNA davanti ai miei occhi, unità ripetute di milioni di filamenti. Io ero in ognuno di quelli come lunghi percorsi da affrontare, come strade che non chiedono altro di essere attraversate, e ogni volta che mi perdevo, ogni volta che ti voltavi, trovavi i miei occhi felici come onde del mare che sbattono sugli scogli. Erano miliardi di incontri, di spostamenti, di svolte e di naufragi. Li ricordai tutti: sia quelli passati che quelli futuri.
La falesia davanti a me era la tua schiena che eternamente freme, il mare dietro, la nostra vita insieme.

giovedì 2 luglio 2015

Che cosa potevo dirle

Che cosa potevo dirle. Aveva il suo orecchio lì a pochi centimetri dalla mia bocca. Si era anche spostata i capelli.
Che cosa potevo dirle. Non ero ispirato. Come al solito le parole ti arrivano quando sei solo, quando sei lontano. L’occasione dovrebbe fare l’uomo ladro, ma io non so rubare neanche un bacio.
Che cosa potevo dirle. Stavo perdendo tempo, quello prezioso. A volte il silenzio paga, altre è un segno che non viene condiviso. Qualunque cosa pensi di fare, chissà perché lo ritieni sbagliato. In effetti bisognerebbe sbagliare.
Che cosa potevo dirle col cuore in gola. Avevo perso la voce e la mia testa era colma di idee che scartavo in continuazione come si spazzano le formiche dalle braccia. Il suo orecchio sembrava che respirasse e che mi buttasse dell’aria fresca sulla faccia.
Che cosa potevo dirle in quella fessura dove al suo interno un martello aspettava di battere sull’incudine a un accenno qualsiasi di rumore.
- Hai detto qualcosa? – mi disse senza girarsi.
Scossi la testa. Lei guardò a terra. Io le sussurrai qualcosa.
- Vorrei dirti che la vita è racchiusa nel tuo orecchio, solo perché è disposto ad ascoltare ogni mio lamento: anche solo un suono, un sibilo, un avvicinamento. Vorrei scivolare sulle cartilagini, aggrapparmi al tessuto connettivo, per poi infilarmi nel tunnel di Dioniso. Vorrei ubriacarmi, cogliere ogni rumore e acchiappare le tue sinapsi come si prendono le lucciole. Vorrei essere la cera che le protegge, perdendomi nel labirinto della tromba di Eustachio. La via di fuga sarebbe la faringe, che io faccio finta di non vedere perché mi nascondo nel vestibolo. Quella struttura a forma di chiocciola, quella conchiglia dove si trovano i gioielli.
Vorrei starti attaccato come questo orecchio, solo per sentire quello che senti quando sposti i tuoi capelli.