martedì 27 dicembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (19 e ultima puntata)



La cosa più banale da fare a Natale è quella che fai ogni santo giorno: tornare a casa. Lo hanno detto in tutte le salse, filosofi e scrittori di ogni era. La irrefrenabile necessità del viaggio alla scoperta di se stessi per poi volgere al ritorno. Il mio viaggio è stato surreale perché lo richiedeva il tempo. Questo bisogno di stare immerso tra la realtà e il sogno, questa imperturbabile occasione di distacco tra il corpo e lo spirito: il pensiero fantasioso e la razionalità di ciò che è vivo e vegeto. Passo tra la gente in questo Natale strano senza neve, senza Dickens, in un luogo estivo, vedo un albero illuminato. Ho in tasca la moneta e la pistola. Me ne voglio liberare immediatamente. Un barbone chiede l’elemosina e la metto nel suo cappello: cose già dette, già fatte, già scritte. E a chi avrei dovuto consegnarla? Il nuevo sol sta in un povero cappello sgualcito. Ora la pistola che non ha mai sparato, dovrebbe esprimersi come direbbe Checov. A cosa dovrei sparare? A chi dovrei sparare se non a me stesso? Mi siedo su una panchina a fianco di un bambino che gioca coi soldatini. È così attento che mi trascura. Provo a guardare se sta combattendo. Si accorge di me e si nasconde, lui e i soldatini, voltandomi le spalle. Bene, è ora di capire se questo tempo è fasullo. Prendo la pistola, la porto alla tempia. Rido di gusto e premo il grilletto. Uno sparo fortissimo ferma la piazza. Tutta la gente è immobile. Tante statue di gesso.
- Salve! – esclama il bambino.
- Salve! – replico io.
Fingo di morire nel modo infantile per far sorridere colui che ho accanto. La gente torna a muoversi come se nulla fosse successo. Consegno la pistola giocattolo al bambino e mi avvio sulla strada del ritorno. Solange è solo un ricordo, Solange è una pallottola al cuore, Solange è fuori dal tempo, Solange è la mia memoria.
- Hey, amigo
Mi giro...
Fine della storia.  


giovedì 22 dicembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (18)


Antofagasta, Lat 23°26'35''S

Come un piccione viaggiatore sono venuto qui per ricevere un messaggio e volare via sulla strada del ritorno, invece mi ritrovo qui al termine dell’inizio come Colombo, per confondere le Indie con le Americhe, per confondere le nuvole nelle pozzanghere. In questo solstizio d’estate, oggi sono precisamente sul punto esatto delle mie ricerche. Inutile tentare di spiegare la vita, ogni frase è zoppicante, è una ruota di un carro che sta per saltare: più si è in pericolo, più i cavalli imbizzarriti con i paraocchi corrono per scongiurare la morte. Eppure, io sono sveglio, cammino come un fantasma terrorizzato dall’evento. Il sole sta per arrivare nella sua perfetta verticale. La mia testa rivolta al cielo per levarmi dalla mente lo scarto che c’è fra le idee e la forza vitale. Tutte le particelle del mio corpo sono in attesa come soldati in trincea pronti per l’assalto finale. Ma qui sono all’inizio e il tempo si muove disordinato. Il nuevo sol è questo: è la nascita, la salvezza, l’avvento, dall’altra parte del mondo è il giorno più buio dell’anno. Sono prossimo al miracolo, l’astro incandescente sta per giungere sulla mia testa, manderà i suoi raggi come frecce scoccate dai castelli in aria, quelli da me costruiti per difendermi dalle invasioni boicottanti delle mie percezioni innocenti. Ogni giorno della mia vita mi sono focalizzato inutilmente su come tirare avanti. Mai ho pensato ha buttare acqua sul fuoco, mai ho pensato alle molteplici abilità nascoste, agli spazi di movimento, alle cime da scalare e alle discese sulla neve. Mai ho pensato a prendermi il tempo e metterlo in tasca: un fazzoletto bianco per asciugarmi il sudore, un fazzoletto bianco da sventolare. Mi manca il fiato, respiro male. Che fatica questo sole lento. La mia ombra si ritira mestamente e viene verso di me, giusto per sprofondare sotto ai miei piedi fino al centro del mondo. Manca pochissimo e mi assale una tristezza, un’altra invasione. Abbasso la testa e l’ombra è sparita. Il sole è perfettamente allineato a me. Io e il sole. Una spada calda mi trafigge e mi attraversa dalla testa fino al perineo e mi pianta in terra come uno spillo in una farfalla da collezione, che vidi anni fa nella villa Meleto di Guido Gozzano: “Signora felicita m’apparisti così come in un cantico del Prati, lacrimante l’abbandono per l’isole perdute nell’Atlantico; ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono sentimentale giovine romantico. Quello che fingo d’essere e non sono!” Viaggio velocemente in tutte le mie vite vissute come un lepidottero sfuggito da un entomologo distratto a cercare un ago in un pagliaio. Inizio a tremare come un diapason impazzito alla velocità della luce: onde sonore, frequenze che cambiano il corso della materia, e tutto diventa gassoso e vibrante. Una nebulosa di fumo si espande, contiene colori accesi mai conosciuti, si uniscono e ne formano altri. In questo turbinio di emozioni apro gli occhi, senza sapere se li avevo veramente chiusi, e Solange è ad un palmo di naso. Mi bacia con delicatezza ed entra nel mio corpo e io nel suo. Concime vivo come se tutto l’amore e la compassione del mondo venisse coltivata in quell’abbraccio invisibile, giorno per giorno, in quel senso di benessere che vorrei tenere per sempre. Eccola, la infinitezza del vuoto, un lampo di meteora sull’orlo di un mondo perduto. Un sudore cola giù insieme alle lacrime per quel desiderio sopraggiunto che nessuno conosce e che nessuno sarebbe mai in grado di comprendere. Ci affogo in questa benedizione e tutte le cose perdono il loro nome e il loro valore. Cala il silenzio nel silenzio, l’incipit dev’essere nell’ombelico: il giorno del cordone tagliato. Il distaccamento della navicella lasciata libera nello spazio, un satellite per far rimbalzare le onde come una racchetta da ping pong e il mondo attaccato a un filo, il mondo che ritorna sempre ogni volta che desideri, ogni volta che la tua anima vorrebbe ripetere questa esperienza incredibile. Ritorna l’ombra, ritorna tutto e tra pochi giorni è Natale.
continua...

venerdì 16 dicembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (17)

Dall’altra parte del mondo fino al centro della terra, nel vertice l’unico spiraglio. Uno strappo profondo della superficie interna: un pezzo di cielo, un pezzo di roccia, un divieto, un cane, una clessidra, un drago, un elettrocardiogramma, un signore distinto con un cilindro in testa. L’anatomia della terra, l’anatomia dell’occhio. Passo dalla camera anteriore alla camera posteriore tramite il canale, l’ora serrata dei processi ciliari indicano come lancette la capsula e il nucleo del cristallino, così cristallino nella chiarezza; il disco ottico ruota sul nervo tra le vene vorticose suona il muscolo ciliare, dura madre, sclera, la pupilla nella lettura dell’iride, macula la retina nella fascia bulbare fino alla cornea. Viaggio nell’occhio fino al centro della terra. Vedo tutto quanto. Ho fatto tutto questo solo per vederti in ogni frammento, in ogni lacrima lubrificante, in ogni battito di ciglio. Non sempre si piange, a volte l’occhio vuole solo la sua parte. L’occhio che si asciuga non può seccare, è come una spiaggia bagnata dal mare. Miliardi e miliardi di bulbi che sbocciano immagini, un occhio che vede e l’altro a dare conferma. Che siano in senso orario o che tornino indietro, loro ruotano. Di notte vibrano nel sogno come ali di insetto, come il becco del picchio, sulla corteccia, scavano nelle profondità del tronco. Tutto quello che si vive dormendo è astratto, in un momento ti trovi nel fango e un attimo dopo voli sul trespolo. L’occhio è il mondo dove viviamo, solo il cieco conosce la storia da dentro: il centro della terra, dove i terremoti fanno a pugni con la roccia e la lava, come il sangue, cerca crateri per venirne fuori ad espandersi quando l’occhio brucia di invidia. Non basta un po’ di collirio per alleviare il dolore della sofferenza umana, basterebbe tenerli aperti quando è ora, quando le lancette si mettono in posa per segnalare l’inizio delle campane. Suonate, suonate così, che io mi possa girare, verso i tuoi occhi lucidi quando mi stai troppo vicino da non metterti a fuoco. Hai fatto fuoco nel momento in cui li hai spalancati, le tue sopracciglia sembravano tergicristalli. Qualcosa ci separa, non sono gli occhi chiusi, non è la proiezione, non sono gli specchi e neanche la linea dell’equatore. Mi sono svegliato al centro della terra, ora mi arrampico verso lo spiraglio per ridurre in un puntino la pupilla, un abbaglio; vengo a cercarti nel tropico del capricorno, nel solstizio d’estate, vengo a cercarti perché ti voglio vedere, ti voglio vedere bene, con gli occhi colorati di cielo, per essere lì nel momento in cui si manifesta il sole nella sua perfetta verticale e l’ombra rimane per poco tempo appesa ad un filo.   
continua...

giovedì 8 dicembre 2016

Giulia


Lascio a voi le mie scarpe, le lascio perché le vediate. Osservatele bene: sembrano abbandonate. Quindi, io dovrei essere quella che scatta la foto a piedi nudi sull’erba. Invece sono lì, solo che sono trasparente come l’aria. No, non mi sto rendendo invisibile, voglio solo che m’immaginiate: ognuno con il proprio sentire, ognuno con le proprie credenze. Mi sono guardata dentro, sapete, così tante volte da scomparire. Le scarpe… sono infilate. Non vedete che danzo dalla testa alle caviglie?! Una gamba dritta e l’altra arcuata, le braccia libere di disegnare, la testa in bilico pronta a cadere. No, non lo vedete, non lo vedono neanche i miei occhi… non ci sono specchi. Or dunque, chi sono? La risposta cambia continuamente… diamine, gente! non esistono certezze e manco verità tutte intere. Ogni mio passo, con queste scarpe, passo dal plurale al singolare. Ti ho scelto. Sì, proprio tu che stai leggendo. Guarda le mie scarpe mi hanno portato tra le montagne e l’acqua corrente. Guardale bene: sono le protagoniste.
Giulia è il mio nome. Giulia per girarsi. Giulia un indirizzo, una cartolina spedita, un numero nell’elenco telefonico. C’è una cosa che ti voglio dire, spedita come un sms, e te lo voglio precisare: quando incontro te tendo a scordare il tuo nome… e pure il mio. Vuoi sapere il motivo? Se parlo con te e condividiamo questa veloce esperienza, in questa conversazione leggera come l’aria, diventiamo inevitabilmente parte integrante della trasparenza. Per forza, santi numi! per sentire ogni briciola, ogni granello, ogni microbo che compone interamente tutta l’esistenza.


martedì 6 dicembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (16)

In questa specie di semisogno che mi consente di osservare il disegno della montagna, tanto bizzarro, tanto realisticamente a forma di fantasmi, tutto l’essere mio risponde al dettaglio, di un ambiente di cui mai prima di adesso avevo presente; quella cosa che io potrei chiamare me medesimo, si fonde con le figure misteriose delle vette. E quanto più sostanziale, quanto più solido diventa il nocciolo di me medesimo, tanto più stravagante diventa la realtà vicina che mi sta sovrastando. Lo stato di tensione si è disegnato così sottilmente che l’introduzione di una sola particella estranea potrebbe sconquassare ogni cosa. In una frazione di secondo sto provando quella estrema chiarezza della conoscenza, ovvero, perdere completamente l’illusione del tempo e dello spazio: il mondo spiega il suo dramma simultaneamente, lungo un meridiano. In quella specie di eternità, arrischiata come in punta al grilletto più sensibile di una pistola, sento che ogni cosa ha la sua giustificazione, la sua giustificazione suprema: sento le guerre, i delitti, la miseria. Sul meridiano del tempo non c’è ingiustizia, ma l’illusione della verità e del dramma. Trovandomi faccia a faccia con l’assoluto, mi avvolgo nel miracolo di essere pronto a guadare il fiume della vita, per sopportare l’umiliazione e lo sfacelo. Soltanto idee pallide. E così io penso che miracolo sarebbe se questo miracolo che l’uomo aspetta in eterno si dimostrasse di essere solo queste immobili vette che sembrano fantasmi, perché il miracolo sarebbe il sogno di immaginare qualsiasi possibilità che nessuno ha mai immaginato e che probabilmente non immaginerà mai più. Per settimane e mesi, per anni, anzi per tutta la vita, io ho atteso che qualcosa succedesse, un evento intrinseco che alterasse la mia vita, e ora all’improvviso, ispirato dall’assoluta disperazione di ogni cosa, mi sento sollevato, come se mi avessero tolto dalle spalle un grande peso. Lasciarmi andare, non fare la minima resistenza al destino, in qualsiasi forma si presenti. Nulla è andato distrutto solo le mie illusioni. Sono intatto. Il mondo è intatto. Ai limiti estremi del mio essere spirituale ho ritrovato me stesso, nudo come un selvaggio. Se vivere è il meglio che ci sia allora divento una belva. Finora ho accettato di salvare la mia pellaccia preziosa, ne ho abbastanza, ho raggiunti i limiti della sopportazione, non posso ritrarmi più indietro, il passato è morto. Se c’è qualcosa rimasto alle mie spalle, dovrà scomparire ogni volta che mi giro. Sono vivo. Il mondo da cui mi sono staccato è un serraglio. Erompe l’alba del nuevo sol, ho superato la giungla, il buio, gli spiriti con gli artigli aguzzi, e sono pronto per azzannare con determinazione i miei inizi.
Solange, ho ancora la tua pallottola nel mio corpo…



Continua…


lunedì 5 dicembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (15)

La barca entra nella giungla. Ho dormito per giorni, poi ho preso la via. Ho fatto vedere la moneta a un indio e lui mi ha fatto cenno di seguirlo. Solange è svanita, solo un ricordo, che mi brucia, un dolore alla spalla: il soccorso, la cura. La barca entra nella giungla, e io ho già dormito troppo. Chissà dove mi porta! L’indio mi dice qualcosa e con il dito mi indica la zona, lo guardo negli occhi: non so se sono stolto o perso nella sua anima. La barca sparisce nella giungla. La fitta vegetazione si prende la scena e ci avvolge nel buio dell’Amazzonia. Verde, tutto verde, verde speranza: la barca danza. Sprazzi di finissime luci si insediano intorno, formando una gabbia. Prigionieri viaggianti: vorrei aggrapparmi ad una sbarra, ma lei mi attraversa, tutto mi attraversa, il mio corpo viene diviso in verticale da fasci di luce. Pezzi di me si staccano e poi ritornano.
- Es esto “un nuevo sol”? - chiedo all’indio porgendogli la moneta.
Lui si fa un’alzata di spalle. Non so se ha capito l’antifona. La pistola è sempre infilata dietro la schiena. La barca va verso il buio più fitto, una specie di galleria: quando entro non vedo più niente, mi agito, ma resto composto, il mio cuore aumenta, lo sento in gola e nella caviglia, ad ogni colpo la barca ondeggia, allungo le mani sul bordo, mi tengo, tra un po’ si rovescia: l’angoscia, non riesco a dire nulla, ho perso la parola, vorrei urlare qualcosa, ma niente, niente di niente, il mio cervello si è spento: solo la paura: è accesa: potesse almeno illuminare la rotta, non so perché mi viene di chiedere aiuto alla mamma, oddio, perché non riesco più a muovermi, perché le mie braccia sono pezzi di legno, ma sto respirando? Fatemi uscire al più presto, sto tremando, non esisto, ecco, non esisto, non sono più io: coscienza, solo coscienza, mi turba, mi annienta, aiuto, aiuto, prego, prego tanto, perdono, salvami, ti prego, mi dispiace, quando finisce… Scorre la barca, unica certezza: il movimento, da qualche parte vado, stai tranquillo, ci sono io, questo buio è quasi finito, non ci credo… una piccolissima luce in fondo: davvero, diventa sempre più grande: davvero, ritorna il sangue: davvero, ritorna il sereno: davvero, il cuore regolare: davvero, la luce è più forte: davvero, mi acceca: davvero, sono sfinito: davvero, sono fuori: davvero, e l’indio è sparito: davvero.

continua...


Penelope


Penelope è greca. È una ragazza sportiva, fa triathlon. Un giorno un tizio s’innamora perdutamente di lei. È uno che viaggia molto e si chiama Ulisse. Ulisse sa pedalare e correre ma con l’acqua non ha un buon rapporto. Spesso ha rischiato di annegare in passato. A Penelope non importa, solo che quando lui si presenta col salvagente, non lo sopporta. Quando fanno l’amore, però, Ulisse sbaglia sempre il nome, è un tipo distratto, ogni tanto la chiama Circe, ogni tanto Calipso.
E a lei non va giù.
- Chi sono io?
- Nessuno!
E lui si inorgoglisce sempre a questa risposta.
Un giorno Penelope invita cinque proci a casa sua a mangiare pranzo. È una brava cuoca, sa fare il porco con le vongole e il coriandolo: una ricetta tipica brasiliana di Rio de Janeiro. I proci mangiano a sbaffo e bevono litri di vino. Si sono convinti che uno di loro spodesterà Ulisse. Per un mese tutti e cinque la corteggiano, e si iscrivono a tutte le gare di triathlon con scarsi risultati, che fa dire a Penelope, quando li vede all’opera nelle loro tristi esibizioni sportive, la seguente frase:
- Ma guarda sti proci.
Allo scadere del mese si presentano tutte e cinque alla porta di casa di Penelope e provano a capire le sue intenzioni. Mentre discorrono del più e del meno, a un procio non gli sovviene una domanda ovvia da fare, dato le circostanze!?
- Mah, Ulisse?
- Chi? Il porco?


martedì 29 novembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (14)

Apro gli occhi. Solange.
- Chiudi gli occhi.
Apro gli occhi. Solange.
- Chiudi gli occhi.
Apro gli occhi. Solange.
- Chiudi gli occhi.
Proprio tutta un’altra storia, un altro mondo, un tempo indefinito, diventare irriconoscibile senza lo specchio, conservare una smorfia di dolore, avere un disperato bisogno di una platea, formidabile la struttura, poche e semplici mosse, tutto appare placido, pacifico, pure troppo pacifico, mi è impossibile liberarmi dalle emozioni, incapace di abbandonarmi interamente, la guardo quasi commosso sotto quell’esclusivo profilo, le chiacchiere stanno a zero, non c’è nessuna guerra, nessuno sparo, mi ricordo il punto esatto. Sono vivo.
Apro gli occhi. Solange.
- Chiudi gli occhi.
Apro gli occhi. Solange.
- Chiudi gli occhi.
Apro gli occhi. Solange.
- Chiudi gli occhi.
La vita è vasta, è come risvegliarsi ogni volta, siamo scollegati dalla creazione, abbiamo perso l’origine, i risultati arriveranno, se dovesse esserci un secondo passo che delimita la visuale, sto facendo la cosa giusta nel comprendere questo spazio, ci siamo incontrati in passato dove il cuore era pronto.
Apro gli occhi. Solange.
- Chiudi gli occhi.
Apro gli occhi. Solange.
- Chiudi gli occhi.
Apro gli occhi. Solange.
- Chiudi gli occhi.
In ciò che ci separa la luce che c’è oggi, per questo che esistono gli occhi, nulla del miracolo potrebbe essere ricordo, per questo tu e io apriamo l’alba e il crepuscolo, forza amante, giunge la gioia, bacio dopo bacio, salvo ormai dal mondo, nella vita più cara, gli uccelli che cantano, dolore di grandezze, vale soltanto vivere. Accompagniamo le nostre anime.
Apro gli occhi. Gli occhi aperti.
Suoni di clacson. Scendo dal letto. Un dolore alla spalla sinistra, vado verso la finestra. Traffico.
- Hola, Hombre!
Mi volto, una donna che non conosco.
- Dónde está Solange?
- No sé Solange!
- Dónde está? Dónde está? Dónde está? Dónde está?
- La Paz.
- No, la pace. Solange!
- Hombre, esta noche, tù eras un libro abierto.
- Sono solo pagine a caso.
continua...



sabato 26 novembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (13)

- Hey, aspetta!!!
Le urlo correndo col cuore in gola. La gioia mi pervade sul petto, i miei occhi luccicano come nuvole di vapore, la mia pelle addrizza i peli come l’erba che cresce tra le insenature dell’asfalto, le mie cartilagini corde di violino, le mie ossa un grande contrabbasso, qualcuno suona con l’archetto. Le vado incontro scivolando sul terreno ripido. Ho cambiato sentiero. Tra me e lei venti metri. Ora è lo spazio che cancella il tempo, la distanza una musica soave, diciannove metri e mi accorgo del lago, diciotto metri e mi accorgo del cielo, diciassette metri e respiro, sedici metri e sorrido, quindici metri e ho paura, quattordici metri e tremo, tredici metri e magari mi fermo, dodici metri e lei non si gira, undici metri e i suoi capelli neri, dieci metri e manca poco, nove metri lei sente i miei passi, otto metri e prendo il foulard dalla tasca, sette metri e sento il suo primo strato di coscienza, sei metri e ci sono dentro, cinque metri e ho un leggero capogiro, quattro metri e lei si gira, tre metri e vorrei cadere a terra, due metri e lei mi spara.  
- Come ti chiami?
- Solange.
Le mie gambe sono molli, il foulard cade lentamente, non c’è un filo di vento, la sua pistola fuma l’ultima sigaretta e arriva la nebbia a catturare il sole.

continua...


mercoledì 23 novembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (12)

Il sistema binario ha due simboli: 0 e 1. Assenza di tensione, presenza di tensione. Nulla e tutto. La memoria chiusa in gabbia, la velocità delle sinapsi, l’elaborazione della realtà. Conflitto e guarigione. Gioia e dolore. Zero è il matto, l’uno è il mago. Follia e magia. Potrei andare avanti così, ma cammino a fianco del treno che deve ancora passare a dividere il bene dal male. La verità è che non so cosa sia un sistema binario. Non so cosa sia un sistema. Penso al verbo, ai giochi sparsi sul pavimento e a mia madre. Entro nella folta vegetazione del Machu Picchu, avanzo con passo regolare, respiro l’odore misterioso del luogo, in questa retta via del binario di un treno che non è ancora passato. Il presente è il mio movimento, l’universo è parallelo. Per assurdo questo viaggio assomiglia a un viaggio di lavoro. Scavo l’aria, la sposto, produco vento alle mie spalle dove qualcuno scatta una foto. Mi giro e non c’è nessuno. Ci devi pensare due volte quando sei chiuso nel binario vuoto! L’equilibrista sta sempre sulla rotaia ad aspettare il treno per scendere e non farsi investire. Passare dall’altra parte, cambiare idea, considerare la vulnerabilità per contrastare la coerenza. Mi emoziono per nulla, basta una scossa elettrica partita da chissà dove, alimentata da un interruttore presente nel mio sistema cerebrale. Sistema le tue cose, diceva mia madre. Fare ordine, mettere in disordine. Spargere vecchi ricordi come sfogliare vecchi diari di scuola al cui interno venivano scritte note da far firmare ai genitori. Il ragazzo non si applica, è un chiacchierone e non ha portato la ricerca per ben 4 volte. Gliela porto adesso maestra? A stento sufficiente, quasi sufficiente, appena sufficiente. Giudizi. Mai discreto perché non lo sono mai stato e non lo sono neanche adesso. Buono e ottimo lo abbino solo al cibo, distinto lo divido con l’apostrofo. Bastava un sei per essere, un sufficiente per galleggiare. Ora sono libero di salutare tutta la brava gente. Non so cosa sia un sistema binario, il treno sta arrivando. Mi passa accanto lento. Guardo le facce appoggiate ai finestrini, assomigliano a tutti i miei insegnanti. Non ho più bisogno di maestri.
- Hola chico!
La voce vibra e mi attraversa la pelle, smonta il binario e mi scaraventa nel sistema infinito. È lei che mi ha deragliato, la ragazza vestita di gelsomini mi sventola un foulard d’innumerevoli colori verdi. Inizio a correre per provare a salire dall’ultima carrozza, ma il treno è più veloce e io sono a stento sufficiente. Mi lascio cadere a terra, mi lascio andare alla speranza, e il foulard di foglie verdi si posa sulla mia faccia.

continua...

domenica 20 novembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (11)


Come sia arrivato a Cuzco è un mistero. Essere nella plaza de armas è uno scherzo del destino. Credo di avere perso tempo tra il Machu Picchu e il lago Titicaca a respirare aria rarefatta di civiltà antica. Camminando alla ricerca di quella meravigliosa ragazza ho cancellato ogni traccia. A queste altezze si ha l’impressione di non esistere. Una bella sensazione la non esistenza. Ora sono seduto su di una panchina, risvegliato da un vecchio inca che mi sta seduto accanto. Assomigliamo a due campanili che segnano ore diverse sulle nostre facce, quadranti di orologi aperti come cipolle. La panchina è la chiesa. La vita intorno una santa messa.
- Da dove vieni, ragazzo?
- Dall’altra parte del mondo.
- Cosa cerchi?
Prendo la moneta che ho in tasca e gliela porgo.
- Questo.
Lui la osserva sulla sua mano ruvida che ha solo linee della vita.
- Un nuevo sol?
- Sì.
Me la restituisce e io la rimetto in tasca.
- Come ti svegli al mattino?
- Scusi?
- Sei come tutti. Al mattino vi svegliate rassegnati.
- Io mi sveglio perché ho un obbiettivo.
- E quale sarebbe?
- Portare a termine.
Il vecchio sorride e si tocca la faccia spostando le lancette. Il suono della campane toglie le parole. In questo silenzio di salvezza tra un din e un don, risale la nostra anima, su gradoni di una piramide, architettura complessa e perfetta della sommità di Dio, che si esprime nella sua interezza, quando il sole giunge con la sua luce a riprendersi il mattino. Stare in cima non basta.
- Senti, ragazzo, lo senti?
- Sì.
- Il tempo è un’illusione, le parole sono merce. Ogni parola è complessa, per qualcuno potrebbe essere salvezza, per qualcun altro la morte. Immagina poi una frase, quante emozioni vanno a condizionare il nostro cuore, ora pensa a pagine e pagine di innumerevoli parole che spostano le nostre frequenze. Vedi, ogni parola è una sentenza o una liberazione. Ogni frase la condanna o la verità. Ogni libro la galera o la vita intera.
- Non capisco.
- Non salvare chi non vuole essere salvato. Non prenderti mai questo potere assoluto, neanche con te stesso. Sei solo un uomo, una cellula dell’universo.
Il vecchio si alza e mi saluta. Mi sale una rabbia incomprensibile. Le sue parole hanno toccato corde tese del mio sistema nervoso, i tendini si sono messi a suonare un certo disordine, e i muscoli si sono contratti in assenza di flusso sanguigno bloccato dai linfonodi che si sono messi di traverso. Tiro fuori la pistola e gliela punto alla schiena, è arrivato il momento di demolire la diga.
- Sei tu quello che sto cercando?
- Io sono solo l’inizio.
continua...



martedì 15 novembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (10)


Ti ho cercata tra le formiche nelle cortecce di tronchi d’alberi maestri, svenuti silenziosamente nella foresta, i quali ostacolavano sentieri poco battuti, per impedire di essere asfaltati. Mi sei salita sulla mano tra le linee ramificate del palmo e le escoriazioni causate dai rovi. Ci hai girato intorno, facendo finta di niente, e ti sei infilata nel tunnel della manica a seguire il tracciato irregolare di una vena appariscente. Sei salita sostenendo una briciola di speranza, e ti ho perduta tra il gomito e la schiena. Potevo ucciderti!
Ti ho cercata alzando lo sguardo verso l’alto, tra sciami di api che entravano e uscivano da arnie appese ai rami di salici piangenti di miele. Le gocce erano lacrime dolci che scendevano sulle mie gote, trampolini di lancio per il mio labbro inferiore, un bordo morbido sul dirupo dell’amore. Le mie papille gustative riconoscevano il tuo gusto mentre mi ronzavi nelle orecchie. Le tue frequenze vibravano tra i lobi e le meningi, ed io ho chiuso gli occhi per paura di vederti. Tu eri la regina e mi puntavi il pungiglione come una spada.
In guardia! Potevi ucciderti!
Ti ho cercata negli stagni tra gli innumerevoli girini che sarebbero diventati rane gracidanti con quel sottomento che si gonfia al ritmo di un cuore aperto estratto dallo sterno da un abile chirurgo. Oppure un rospo in attesa di essere baciato dalla fortuna di trasformarsi in un principe per svegliare una bella addormentata nel bosco. Ma quei girini sarebbero diventati coccodrilli, svelti e affamati, pronti per azzannare qualsiasi cosa che si fosse mossa. L’istinto primordiale del cervello antico, attaccare per non diventare una borsa.
Potevi uccidermi!
Ti ho cercata tra le lumache chiuse in casa e quelle fuori che erano esche per pesci pronti ad abboccare o larve in procinto a diventare farfalle. Si vive poco a volare colorate o ad annegare appesi a un filo, meglio ognuno chiuso, nel suo guscio, a rotolare quando il vento ce lo concede o un serpente che ci dà una spinta mentre striscia tra le cortecce dove c’erano prima le formiche. Sono seduto qua sul tronco dell’albero maestro. Ho raccolto le ragnatele con la faccia e con tutto il resto, se non mi dici dove nascondi ciò che coltivi, potrei uccidere questo serpente sospettoso, che non ha ancora deciso se mordermi o stringermi, perché, in realtà, non sa di essere velenoso.
continua...



domenica 13 novembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (9)

- Sentite, io non c’entro un cazzo! Non so nulla del denaro e della coca.
- No entiendo!
- Credetemi. Io non so neanche che ci faccio qui. Sono partito per trovare un tizio. È possibile che mi trovi sempre nella merda con gente che tiene un’arma in mano, capite? Credo di essere in due tempi diversi… due ore diverse.
- Hey, amigo, estàs loco!
- Non sono pazzo. Io non sono in questo istante!
- Esto se hace de la coca!
- Io non mi drogo, cazzo!
Va bene. Questi hanno due mitra puntati su di me. Io ho una pistola nelle mutande. I casi sono due: o mi ammazzano oppure è tutta una messa in scena. Se io non sono realmente qua, ne esco pulito come una rosa, se invece è una stronzata che mi balena nella testa, allora vado direttamente all’inferno e buonanotte al secchio. Ogni giorno qualcuno ti punta qualcosa contro, che sia un dito per giudicarti che siano parole offensive, da qualche parte devi pur trovare il modo di schivare i proiettili, a meno che tu non voglia uscire con un giubbotto antiproiettile, che non serve ad un accidente, perché chi ti giudica ti fa un bel buco nella testa, e quel buco te lo porti appresso per tutta la vita. Quindi, o questa è un’illusione, un incubo sepolto nei miei reconditi pensieri che si sono rivelati sottoforma di criminalità inconscia per la mia eccessiva immaginazione, o tra pochi secondi, vi saputo tutti brava gente. Per scoprirlo tiro fuori la pistola. La punto verso il soffitto e i due iniziano ad azionare i loro mitra. Saltano pezzi di legno, frammenti di muro, piume di cuscini e il letto sembra abbia delle convulsioni. Un casino indescrivibile da rompere il martelletto dell’incudine che ho infilato nelle orecchie. Poi il silenzio. Io sono in piedi. Loro sono in piedi. Intorno tutto è grattugiato, nella mia testa l’acufene. Buchi nei muri, la porta dietro è in frantumi, la maniglia si è aggrappata alla serratura. Al rallentatore mi guardo a destra e poi a sinistra, abbasso i miei occhi sul mio corpo per osservare se per caso sia stato sbriciolato. Con le mani faccio un’ulteriore verifica: sono intero. Stanno ricaricando i mitra e io non riprovo per la seconda volta a convincermi che non sia lì, meglio alzare i tacchi e correre fuori da sto posto infame. Attraverso le vie di Tarapoto ed entro in un centro commerciale. Non mi hanno seguito. Hanno i soldi e la coca, che gliene frega. Entro in un bagno perché ci manca poco che mi caghi addosso. Finita la cerimonia entro in un ristorante. La fame chimica mi ha bucato lo stomaco. Ordino un sacco di porcheria piccante e mi bevo due birre fresche. Mentre m’ingozzo, vedo lei passare di corsa. Lei, quella del pullman che mi dormiva sulla spalla, e mi va di traverso la birra.

- Sto imparando - ha detto all'uccello - anche se è un apprendimento inutile, perché sono condannato a morire.
- Hai scoperto quanto tutto sia facile? - sembrava rispondere il corvo - basta avere coraggio.

(Vecchio detto peruviano)
continua...


mercoledì 9 novembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (8)

Un milione di dollari. Che ci faccio? Mi compro un loft, in centro, con una grande vetrata, come cazzo l’arredo? La parte superiore. Un letto a tre piazze, largo, comodo, un armadio a vista, aperto, jeans e camicie, scarpe, un tappeto, due affiche di Pollock, il muro giallo, il soffitto blu. Scendo, una hall senza muri, cucina in acciaio, divani, un mega televisore, un tavolo, le sedie, i muri, ci sbatto tutti i colori. Basta. Una macchina, piccola, ah, già, una libreria, con i libri. Lampade ovunque. Quanto avrò già speso? Il bagno. Idromassaggio. Una grande vasca a tre piazze. Vado alle Maldive. Mi compro un teatro, in legno, ci faccio Riccardo III, la tempesta, Amleto, Otello, quella roba lì. Apro un’attività. Non so. Qualcosa apro. Ma poco impegnativo. Un milione di dollari. Senta – sono in banca – vorrei fare un versamento. Di quanto? Un milione di dollari in contanti. E dove li ha presi? Li ho trovati in Perù. Senta… Sto scherzando. Ho già mal di testa. Li regalo. Macché dico. Col cazzo. Cappelli, un negozio di cappelli. E sciarpe. E guanti. E portafogli vuoti. E ci metto i soldi. Vendo portafogli con mille dollari dentro. Vorrei convertire un milione di dollari in euro. Scusi? Sto scherzando. Va bene. Ora esco. Vado all’ufficio postale di Tarapoto. Saluto il tizio al bancone, l’altro dorme sempre. Quando arrivo a destinazione c’è un sacco di gente. Aspetto in fila il mio turno. Una bandiera americana in Perù. Passa una mezzora e arrivo davanti all’impiegata. Assomiglia alla tizia della foto. Anzi è proprio lei. Venduta. Le chiedo se posso spedire del denaro in Europa. Lei mi dice di sì e mi chiede l’importo.
- Un millón de dólares!
Lei inizia a ridere. Ride così forte che si mettono a ridere tutti. Ora parla uno spagnolo stretto che non comprendo. E tutti ridono. Avrei voglia di tirare fuori la pistola e piantarle una pallottola in fronte.
- Scherzavo.
E me ne esco. Quando ritorno al “El pilota” due tizi armati mi aspettano nella mia stanza con una valigia piena di coca.
- Hey, amigo, el dinero?
Qui la situazione si mette proprio male. Il loft in centro non mi è mai piaciuto.
continua...


lunedì 7 novembre 2016

La ragazza che stendeva le lenzuola nel parco

Era una ragazza che stendeva le lenzuola nel parco. Arrivava con un grande cesto di lenzuola bianche e un foulard in testa. Prendeva un filo avvolgibile e lo legava con cura, in punta dei piedi, tra due piante che stavano nella giusta distanza. Si metteva le mollette in bocca e stendeva le lenzuola. Acchiappava le due estremità con le dita, sollevava il panno e lo lanciava. Lui, come un saltatore alla Fosbury che non supera col corpo l’asticella, si adagiava sul filo piegando...si perfettamente al centro. Un gesto lieve, eseguito con una forza precisa come se gli fosse arrivata una palla da alzare per una schiacciata. Ogni giorno, che c’era sole, lei stendeva. Quando aveva finito correva intorno, nascondendosi, per sbucare all’improvviso. Giocava da sola. Ci infilava la faccia nelle lenzuola, oppure, ci si attorcigliava. Forse voleva dare forma alle sue fantasie. Un giorno non la vidi. Sembrava che qualcuno avesse cancellato un dipinto da un quadro. Quello spazio vuoto tra le due piante era peggio di un tradimento. Provai sinceramente disagio, quindi, andai a casa e misi tutte le lenzuola che avevo in lavatrice, e le portai, in braccio, di corsa, nel parco. Passai il filo tra le piante, in punta dei piedi, e stesi le lenzuola con le mollette nella bocca. Stesso gesto, stesso salto in alto, stessa palla alzata. Cominciai a correrci intorno e ci misi la faccia dentro. Quando ebbi il fiato corto mi sdraiai a terra e iniziai a ridere guardando il cielo che si faceva grigio. E piovve sulla mia faccia. Quando mi tirai su, vidi lei con una molletta in bocca.
– Scusami… – le dissi imbarazzato – stavo…
– O isto osa avi acendo…
Presi una molletta anche io e me la misi in bocca.
– Erché on ei enuta ogi?
– Erché ioveva, itrullo!
Nessuno mi aveva mai dato del citrullo con una molletta in bocca in un giorno di pioggia.
Ci avvicinammo e incastrammo le due mollette.
Il giorno dopo era sempre una ragazza che stendeva le lenzuola nel parco con un ragazzo che teneva le mollette nella bocca.


domenica 6 novembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (7)

- Hey, hombre…
Vengo svegliato da uno scossone alla spalla. Apro gli occhi e vedo l’autista. Il pullman è arrivato al capolinea. Il giorno si è svegliato con me.
- Dónde estamos? – domando.
- En Perù.
Riprendo coscienza lentamente. Sono riemerso da una profondità ignota.
- La chica? dónde está? – chiedo con vigore all’autista.
- Qué chica?
Gli descrivo, con enfasi, come quando si perde la testa, la ragazza che ha dormito sulla mia spalla tutto il viaggio; gli dico com’era vestita: i suoi capelli, le sue mani, il suo profumo.
Lui ride. Lui se la ride coi sui quattro denti in croce.
- Hey, hombre, un extraño ve siempre el sol.
E se ne va ridendo ancora.
- Un nuevo sol, hombre, es un sueño.
Possibile che quella ragazza non sia esistita? Eppure sento ancora la pressione sulla mia clavicola. Scendo dal pullman. In tasca ho ancora la moneta, e la pistola sempre dietro alla schiena. Salgo su un moto taxi.
- A dónde vamos?
- Vamos.
Lui alza le spalle e parte. Ripenso a lei dimenticando tutto il mondo intorno. Riavvolgo la pellicola della sera prima, cerco la sequenza di lei che si avvicina. Non la trovo. Una scena che è stata tagliata dal regista. Già, ma chi è il regista? Buona la prima!! poi qualcosa deve essere andato storto, poi qualcosa ha deciso che quello che era successo andava cancellato, per mancanza di coerenza, per mancanza di un seguito, per mancanza di fondi. “Questa no”, un ordine arrivato al montaggio. Eppure quella scena era perfetta, possibile che si cambi il progetto dovuto dal caso? Voglio quella immagine, voglio quel momento, voglio quel ricordo conficcato nella mia mente che posso andare a cogliere quando voglio, indipendentemente se gli occhi saranno aperti o chiusi. Non c’è, non la trovo. Ora ricordo che da bambino persi una moneta perché avevo le tasche bucate. Piansi perché era la prima moneta che mi venne regalata. Mio nonno mi disse di tenerla con cura, e io la persi. La cercai per tutte le strade del paese ma non la trovai più. Mi sentii così povero che dovetti mentire a tutti dicendo che l’avevo messa in un posto sicuro. Il posto sicuro per tutta la mia vita è sempre stato nelle tasche degli altri.
Fermo il moto taxi. Pago il dovuto. E lui parte. Non ricordo quanta strada abbia fatto. Davanti a me un bar con l’insegna “El piloto”: posto ideale per farsi portare. Da quando sono qui, mi sono solo fatto pilotare. Entro. Un signore dorme sul tavolo, un altro sta dietro al bancone.
- Donde puedo encontrar una habitación?
- Aquì.
Mi porge una chiave, due birre e mi indica la porta. Mi chiudo dentro. Mi spoglio e mi faccio una doccia veloce poi salto sul letto. Il mio culo batte su qualcosa che sta sotto. Guardo bene e ci trovo una valigia. La tiro verso di me e l’apro. Dentro ci sono un sacco di dollari. Li conto. Un milione di dollari. Una cazzo di valigia con un milione di dollari. La paura mi prende il cuore. Mi manca l’aria. Che cazzo ci faccio con una valigia con un milione di dollari? Mi vesto, rimetto la valigia sotto il letto. Apro la porta, vado verso il barista:
- Perdóname…
Non mi fa fare neanche la domanda che mi risponde immediatamente.
- Un amigo muerto.
E si fa il segno della croce.
In questo posto l’hombre vive, l’amigo, fa sempre una brutta fine.

continua...



mercoledì 2 novembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (6)


La poca gente che viaggia con me sul pullman ha lo stesso sguardo dei contadini del mio paese natio. Meglio una sicura infelicità che una felicità incerta. Me lo dicono le loro espressioni, le loro rughe marcate, i loro calli, le unghie gialle. La terra: unico concetto, unico capitale, unica crescita. Piove e qualcosa cresce. Non c’è crescita più sincera della terra. Ma le facce dei contadini hanno la fatica tra la mandibola e le sopracciglia. Quella durezza di chi si spacca la schiena e contorce la faccia. Eppure fuori c’è il paradiso e Caronte alla guida. In fondo cos’è che ci riempie di felicità? In fondo siamo solo qui di passaggio. In fondo un ragazzo suona un violino. Toccare il fondo per risalire, questo è il dovere del seme. In questo luogo la luce è diversa, è una luce simile a quella di tanti anni fa. Sfumature, nebbia invisibile, lampadine fioche sui lampioni curvi. Umili lampioni di tutto il mondo, unitevi e alzate la testa! Troppo chiaro da dove sono partito, in questo luogo esiste ancora qualche margine di mistero. Sono tutti stravaccati sui sedili. La stanchezza li avvolge e li rende dei burattini. La stanchezza è vitale. Lasciatevi andare. La testa appoggiata al vetro, il naso mi duole. Vorrei chiudere gli occhi e dormire. Niente.
Quand’è che la montagna si prende il sole?
Quand’è che il mare si prende la luna?
Quand’è che la foresta si prende le stelle?
Io non ho paura. Suona ragazzo suona. Io ho una missione. Io e la mia pistola. Quando questo pullman si fermerà prenderò una decisione.
Una ragazza dai lunghi capelli neri avanza nel corridoio. Ha un vestito di gelsomini. Non sembra del posto. È magra come un ramo, un raggio di sole, uno spicchio di luna. Profuma di limone. Mi siede accanto e me lo spruzza. Le sue mani sono ramoscelli, le muove sospinte dal suo respiro, un fiato caldo d’estate le esce dal piccolo naso. Mi guarda con la bocca chiusa. Abbasso leggermente la testa verso le sue gambe come un lampione, le osservo le caviglie, scogli asciutti, c’è bassa marea, l’acqua si ritira. Si aggiusta i capelli, inarca la schiena, e sbocciano i suoi seni. Poi lentamente si lascia andare, non prima di avermi offerto i suoi occhi castani. Si abbandona. La sua testa si avvicina. La mia spalla si prepara. Gentilmente cade come una foglia e si adagia. La sua tempia nel vuoto cerca il contatto, dolcemente mi sfiora come se mercurio avesse incontrato plutone. La sua chioma solletica il mio collo.
Sono la montagna, il mare e la foresta. Lei le stelle, il sole, la luna.
Caronte rallenta, il paradiso è sulla mia spalla.
continua...



martedì 1 novembre 2016

La Cri


La Cri non è turca. La Cri fuma come una turca. È un fiume in piena quando parla e le esce il fumo dalla bocca anche se non ha la sigaretta accesa. Ci si potrebbe scrivere un libro su le sue passate avventure, ma ne racconta così tante che uno poi se le dimentica. Però, a me una è rimasta impressa: cioè, lei ha un fratello che vive a New York in zona Manhattan, che non vede da 12 anni, e non ci vuole andare. Quindi, le ho chiesto il motivo.
- Hai paura di volare?
- Macché paura di volare…
- Soffri di claustrofobia?
- Macché claustrofobia…
- Hai timore di attentati?
- Macché timore di attentati…
- E cosa allora?
- Ma secondo te, io posso stare 12 ore senza fumare?
Proprio così, non va a New York perché non può fumare sull’aereo. Mi ha detto che ha provato ad andare da uno sciamano per indirizzarla, con la meditazione a occhi chiusi, a visualizzare un sogno lucido che durasse 12 ore, dove lei poteva fumarsi tutte le sigarette che voleva anche se non era reale. Lo sciamano le aveva assicurato che con un po’ di disciplina ci sarebbe riuscita. Ma dopo un mese di tentativi quotidiani si era ritrovata nel sogno lucido che non trovava mai l’accendino e si infervorava come una pazza isterica. Per colpa di quelle meditazioni, andava e veniva dalla realtà al sogno lucido, finché un giorno si trovò a Torino in piazza Castello senza sigarette, e non sapeva se era vero. Probabilmente le aveva perse da qualche parte o le erano scivolate dalla tasca. Erano le 23 e i tabacchini erano chiusi. In preda al panico cercò disperatamente un distributore automatico che non trovò, ma vide un autobus in moto, senza autista, il quale era sceso un attimo a controllare se aveva un gomma a terra. Lei ci salì di brutto e partì velocemente. Era il 5 sbarrato. Sfrecciava per la città e avendo fatto un percorso sicuramente diverso, ogni persona in attesa alla fermata, esclamava:
- Che ci fa il 5 sbarrato...
Vmmmmm
Quando arrivò a destinazione, quattro pantere della polizia erano già sulle sue tracce. Non riuscì a prendere le sigarette perché venne ammanettata e portata in questura.
- Datemi un sigaretta, cazzo! – urlava strattonando i poliziotti. Nessuno fumava.
Anche al commissariato non c’era un tabagista a pagarlo.
- Ma dove sono finita? Il tenente Colombo fumava e risolveva casi di omicidio. Cazzo! Siete degli incapaci.
- Vuole chiamare il suo avvocato?
- Io voglio chiamare il mio tabacchino!
Il commissario dopo due giorni decise di lasciarla andare con una multa salata, perché trattenerla lì sarebbe stato dura anche per loro, dato che lei aveva fumato le bellezza di 10 pacchetti di sigarette accendendone una dopo l’altra.
- Sono una giungla! – furono le sue ultime parole rivolte al commissario prima di uscire cantando a squarciagola “Smoke on the water”.
Il giorno dopo, in caserma, tutti i poliziotti iniziarono a fumare, in quanto – e lei questo non lo sapeva e non l’avrebbe mai saputo – erano degli ex fumatori che avevano smesso di fumare grazie a uno sciamano che aveva insegnato a tutta la combriccola il sogno lucido.




lunedì 31 ottobre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (5)

Una pallottola nel naso non è una supposta nel culo. Una pallottola nel naso non te lo libera per sei/otto ore. Magari. Una pallottola nel naso è un aerosol di polvere da sparo: ti apre la fontanella del cranio e diventi un irrigatore da giardino. Ho un gran mal di testa nella zona del setto nasale, quindi: o sto da Dio a fare una rinoplastica o questo tizio, che mi è caduto a peso morto sulla mia faccia, mi ha tirato una testata senza senso. Un peso morto pesa il doppio. Un peso morto è una gran rottura di cazzo. Dunque! Non so come spiegarmi. Ho sentito lo sparo, una botta tremenda al terzo occhio, quello che dovrebbe vederci lungo, e poi, un quintale di merda umana da sostenere sullo sterno. Ora, la necrofilia è lontana da ogni mio desiderio, ragion per cui, sarebbe meglio che sposti la sua brutta faccia dalla mia in quanto la sua lingua si è infilata nella mia bocca. Cazzo. È un dettaglio che avrei preferito occultare. Questo è morto con la lingua di fuori come le vacche, e guarda caso, dopo che mi ha rotto il naso, mi ha infilato il suo viscido prosciutto scaduto in bocca. Che schifo. Gli prendo la testa, la sollevo con fatica, e mi levo il serpentello dalla gola. Giro la testa e vomito. Merda. Sputo, tossisco, e vomito.
- El arma, hombre.
Un rumore metallico risuona vicino al mio orecchio. Una pistola lanciata da chissà dove mi cade a pochi centimetri dal mio viso. È la mia pistola. Sposto il porco e me lo levo di torno. Il sole alto mi acceca gli occhi. Un tizio con un’altra pistola in mano fumante sta in piedi. Due facce: la sua e quella del sole. Due facce come i due campanili di Quito a segnare ore diverse. Non vedo niente.
- El era un hijo de puta – mi dice.
Riconosco la sua voce, ma non ricordo più dove l’ho già sentita. Raccolgo la pistola e la moneta. Mi alzo e con un fazzoletto preso dalla tasca mi pulisco la bocca e mi tampono il naso. Lui mi indica la zona dei pullman e mi intima di andarmene da lì.
- Hasta luego, Quito.
Mi dirigo verso la stazione dei pullman barcollando. Infilo la pistola dietro la schiena e guardo la moneta. Poi, mi giro un’ultima volta.
- Hey, hombre, dónde está “un nuevo sol”?
- Salva el culo, hombre.
Già! Mi avvicino a una fontanella e mi sciacquo la bocca. Ci butto tutta la testa. Un pullman sta per partire perché ha appena chiuso le porte. Corro verso di lui che fa retromarcia. Busso con la mano aperta, e le porte si aprono. Salgo.
- Dónde va? – mi chiede l’autista.
- Al capolinea.

continua...      



sabato 29 ottobre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (4)


- Hey, amigo
Ho la canna di una pistola infilata nella narice destra del naso. L’uomo che la tiene impugnata ha un sigaro in bocca, e perde saliva. Ogni tanto sputa di traverso, non mi ha ancora sputato in faccia. Sono a terra e non ho la pistola perché l’ho persa. Non ricordo dove l’ho messa. Mi ritrovo qui, con questo tizio che puzza di tequila, denti marci e faccia scura. Tutto è iniziato un’ora fa. Ero tornato dalla montagna e mi sono infilato in un locale a bere una birra. Dopo un paio di sorsi mi sono diretto in bagno per pisciare. La mia vescica era dolorante e sono entrato nel cesso velocemente. Ho mormorato a voce alta la mia soddisfazione quando mi sono liberato, come quando si uccidono i cattivi pensieri, che da solidi diventano liquidi. Avevo il braccio contro il muro e la testa appoggiata come se stessi contando a nascondino. Svuotato il serbatoio, ho tirato giù la catenella e su la cerniera, mormorando sempre qualcosa, e sono uscito. Avevo la netta sensazione che qualcuno si fosse nascosto in un altro cesso. Ne ero certo, stavo giocando. Mi sono diretto verso il lavabo e mi sono sciacquato la faccia. Più volte. Sentivo la presenza come quando il sole è alto, e cammini, e l’ombra ti supera da sotto i piedi e te la ritrovi davanti. Ho sollevato la testa lentamente, ho guardato lo specchio, e dietro di me non c’era anima via, solo la mia faccia bagnata riflessa. Ero agitato. Il mio cuore ha iniziato a tambureggiare. Ho cercato di ritrovare la calma, e invece ho trovato sul davanzale mezzo chilo di cocaina, una mastercard e una striscia pronta. Cazzo… meglio andarsene. Come mi sono girato un tizio ben vestito e ben pettinato, mi ha preso per il braccio. Non so da dove fosse sbucato ma ho capito che c’era un grosso problema: ero nel posto sbagliato al momento sbagliato. Quito è così, è l’ignoto. Ci siamo fissati per qualche secondo. Lui ha stretto più forte il mio braccio, io non mi sono divincolato. Poi si è messo a ridere. Rideva così forte che sentivo sulla faccia le vibrazioni della sua ugola, anzi, vedevo proprio il profondo della sua gola molto arrossata. Ha mollato la presa, e mi ha dato una pacca sulla spalla.
- Hey, amigo.
Sono uscito dal bagno e ho compreso immediatamente che a Quito, la parola “amigo”, vuol dire essere a rischio, è colui che ti pugnala alle spalle. Ho pagato la birra e mi sono scaraventato fuori. Il sole era alto e l’ombra stava sotto ai miei piedi. Pensavo fosse finita lì, ma sapevo di essere un testimone scomodo. Tutto questo solo per una stupida pisciata. Quando ho girato l’angolo, sono stato scaraventato a terra e mi sono trovato una canna della pistola nella narice destra.
Eccomi qua. Ora come glielo spiego a sto tizio che a me non me ne frega niente della sua roba. Il problema è che davanti ai miei occhi non c’è il tizio di prima, ma un altro, con una brutta faccia scura. Con la mano sinistra prende dalla tasca una moneta e me la mette sotto il naso. Mi invita a leggerla. Metto a fuoco e c’è scritto: “Un nuevo sol”. Che cazzo vuol dire?
- Hey, amigo.
Ancora. Mi scoppia il cervello.
Poi, lo sparo.

continua...



mercoledì 26 ottobre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (3)


La nuvola si adagia gentile sul seno materno della terra, un coperta bianca lo avvolge lasciando scoperto il cucuzzolo, che spruzza altre nuvole come il latte, un vulcano di lava bianca,  un’esplosione di nubi che si scaraventano disordinate nell’aria come pezzi di stracci stropicciati sorretti dal vento. Il cielo contiene gli strappi tra le veloci insenature azzurre che si formano: spiragli, pupille che mi fissano, mia madre che mi tiene in braccio. Un’aquila stringe in bocca un grosso verme, si guarda intorno come se nulla fosse, appoggiata sulla cima come una vedetta che ha beccato l’invasore. Ma dove volevi andare? Ti sei mimetizzato nella radura, ma lo sai che i miei occhi vedono meglio di un satellite? Non ho idea di come sia arrivato fino a qui, me lo sono chiesto, e se lo è chiesto anche il verme. Ho camminato, questo è vero, me lo dicono le mie gambe, il mio acido lattico, i tempi morti, il cuore immobile. Il vero disastro è aver qualcosa da dire, ogni giorno trovo un motivo diverso per vivere e per amare. Se la realtà è questa, tanto vale prendere la pistola e sparare all’aquila per salvare il verme. Ma la realtà è un’altra ed è sempre diversa. Una questione di interpretazione. L’aquila vola via, si libra tra gli stracci, aprendo le ali in segno di vittoria. Squarci, nobili feritoie blu, antiche imprese di cui andare fiero. Vivo costantemente in due orari diversi, nell’ambiguità, nell’ubiquità, io qua, io là, sfoggio del mio ego, sfogo del mio io. Sono già stato dove sono adesso, un modo per esplorare ogni mio ritorno. Eccomi qua, al seno materno per ritornare fanciullo. Mi viene da piangere perché ho fame, mi viene da ruggire perché sono all’arrivo. Che cosa ho fatto quando sono uscito? Qual è stato il primo boccone amaro? L’ossigeno. Lo prendo tutto di un fiato, il sangue inizia a scorrere, irrora ogni centimetro di muscolo, ogni angolo del mio cervello, metto in moto lo spirito, l’anima, l’intelligenza, l’origine della mia esistenza. Sono piccolo, tanto piccolo e indifeso che potrei essere scaraventato nel cielo e poi ripreso; un gioco divertente, che mi fa ridere di gusto, da perderci il fiato. Lo sentite ora il neonato? Quanto ci piace il rumore del suo ridere, un suono soave per le nostre distratte orecchie riempite dal traffico, dalle parole inutili, dalle preoccupazioni, dalla falsità delle nostre certezze, solo opinioni, stupide congetture del vivere, del comportamento, dell’educazione. Non c’è educazione all’origine, quello che sei in quell’istante, è qualcosa che si muove, e che ha voglia di ridere.
- Hola, Hombre!
Non mi giro. Me ne vado velocemente.
- Hombre…
Aumento il passo. Sono un killer, ho un obbiettivo da svolgere, non mi devono scoprire.
- Hombre… hombre…
Corro.
- El arma, hombre.

continua...



venerdì 21 ottobre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (2)


Ho appena sellato l’equatore, sono a cavallo. Ho trovato una stanza dove dormire, c’è il minimo necessario: un letto e un crocifisso al muro. Sono sulla strada centrale della città come un equilibrista sul parallelo: mi butto sul tropico del cancro o su quello del capricorno?
“La terra è ondulante” è la teoria degli spiazzati.
La terra è piatta e la palla è rotonda, la teoria dei cazzoni.
Quand’ero bambino, una volta giocai in porta. Ci fu un rigore contro. Mi misi sulla riga dritta dell’equatore tra i due meridiani, con le braccia aperte, le ginocchia piegate e i guanti più grandi delle mie mani. Lui guardò a destra e tirò quella cazzo di palla a sinistra. Ci cascai a quella stronzata di finta, e mi spiazzò, ma la palla rotolante uscì di lato, a fil di palo.
Tutti e due sbagliammo direzione. Fui felice di essere andato dall’altra parte.
Cammino per la via principale, credo di essere inseguito da un equino, sento sulla schiena i suoi zoccoli sbattere sulla strada. Non  mi giro, sono armato di pazienza, perché la pazienza è la virtù dei forti, così c’era scritto su un muro dove campeggiava anche un “Dio c’è di sicuro”.
Mi nutro di tortillas, chili, tacos e la fresca cerveza del posto. Sembra che ruttare qui sia di buon auspicio. C’è così tanto ossigeno da togliere il fiato. Sono a tremila metri dal livello del mare, nessun pericolo di annegare. Ripasso nella mente la prima regola di un killer professionista: “mai fare finta di niente”, casomai guardare a destra e sparare a sinistra. Rigore, ci vuole il rigore.
È l’ora della siesta. Torno nel piccolo tugurio a riposare. Al bancone c’è una donna che asciuga i bicchieri. Ordino una tequila. Sale, limone e colpo secco, quasi come caricare una pistola e premere il grilletto. Ne ordino un'altra. Lei mi fissa come fanno i baristi che si aspettano qualcosa. Poso la moneta e la fisso. Testa o croce? I suoi occhi sono più scuri della notte ma intravvedo una lanterna. I suoi capelli sono più scuri del buio e vedo sulle punte le lingue di un focolare. La sua pelle è oscura come la foresta quando resiste alla luce della luna. Silenzio e ci ritroviamo a letto nudi, sotto le coperte: lei come il muschio, io come la roccia. Nascono funghi, raccogliamo castagne, ci pungono i ricci, le spine, ogni volta che prendiamo le more. Siamo incastrati su questa terra piatta e ondulante come i suoi enormi seni.
Poi, la mia arma bianca smette di uccidere e si ritira mestamente nel sonno dei giusti.
Apro gli occhi e il letto umido è vuoto, solo lunghi capelli sul cuscino. Mi alzo, spalanco la finestra, e una luce accecante toglie il lato oscuro. Vedo una cattedrale con due campanili: uno segna le sette meno cinque e l’altro le due meno dieci. Orari diversi, basta che fai un passo sul lato opposto e soffri immediatamente una sorta di jet lag, la sindrome del fuso orario. Mi piace, cazzo, se mi piace ammazzare il tempo, ora che sono due i pistoleri. Inizia il duello.
Sento bussare alla porta, entra lei, la donna della notte che mi era apparsa in sogno.
- Bienvenido a Quito, hombre.
- Quito dónde está?
- En todo el mundo!

continua...


mercoledì 19 ottobre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (1)

Sono un killer di professione.
Sono preciso, organizzato, un lavoro pulito. Nessuno sa ammazzare il tempo come me. Sono ricercato. C'è una taglia: taglia corto. Sono in viaggio. Cerco quello che m’insegue e gli vado incontro. Sono armato fino ai denti, passo facilmente tutti i metal detector, perché le pistole, i mitra e le bombe le ho nella testa e in ogni mio pensiero. Vado dall’altra parte del mondo, avrei potuto andarci sottoterra come fanno le talpe, per passare dal centro, ma ho preferito gli uccelli d’acciaio che sorvolano velocemente l’oceano stagnante. Sono al secondo scalo, cambio il volatile. Come un verme entro nel suo corpo. Ogni volta che si solleva, mi chiedo se non sia meglio dirottarlo. Le mie armi segrete tra le nuvole sparano colpi, esplodono, una mitragliata di sensazioni inutili nel vasto cielo dei miei vuoti. Infatti, sono dentro un temporale e l’uccello di acciaio mi sprona ad uscire, buttandomi senza paracadute, scaraventato chissà dove, nell’abbandono delle mie incertezze. Tra poco ci sarà l’atterraggio e io non so cosa vado a fare in quello spicchio, specchio, spocchioso luogo, che è dall’altra parte del mondo. Se trovo qualcuno che abbia minimamente un cazzo di inizio, gli sparo. Atterra con eleganza l'albatros gigante. Attendo che tutti scendano per non dare nell'occhio. Mi addormento con le cinture.
- Che ne dice di sparire? - mi sussurra la hostess.
- Spariamo!

Continua...


martedì 18 ottobre 2016

Lucrezia

Lucrezia è un nome di fantasia perché lei ci tiene alla privacy. Lucrezia avvelena gli uomini, cioè, sono gli uomini che si avvelenano dopo che l'hanno vista. Come quella volta che un tizio la vide sugli sci in costume da bagno, in pieno inverno, e decise di farla finita bevendo la cicuta. Le sue ultime parole furono:
- So di non sapere.
Oppure quella volta che si arrampicò sulle rocce del Gran Canyon, con una tuta da sub, e tre ex indiani sioux di padre irlandese, che erano nei paraggi, si fecero mordere da una vipera sarda, che era lì in vacanza coi punti della Despar, pur di avere come ultima visione quella bellezza inestimabile. Uno si salvò, perché la vipera non aveva sufficiente veleno per tutti e tre, ma rimase un vegetale, insieme alla vipera, in una comunità di recupero: ancora oggi lo scambiano per un cactus.
Una sera, un ragazzo timido ma molto bello, in una vineria, dove lei beveva champagne, le chiese:
- Tu suoni Bach?
- A volte.
- Potrei venire a sentirti?
- Ti faccio sapere.
Non glielo fece sapere mai. Il giorno dopo Lucrezia fuggì in Patagonia. Lui, che era uno dei servizi segreti, davanti alle domande di investigatori privati, decise di togliersi la vita con una pastiglia di cianuro.
Un consiglio: non andate in Patagonia in questo periodo, potrebbe essere fatale.
O diventate un pinguino, o diventate un vegetale.


lunedì 17 ottobre 2016

Il pubblico

Quando si sale sul palcoscenico, che tu abbia davanti cinque persone o cinquantamila, quello che fai, lo fai per il pubblico: col cazzo che lo fai per te stesso. Quello che ti è concesso fare, casomai, è tentare di sceglierlo, o meglio orientarlo il pubblico; quindi, se sul palco hai deciso di urlare tutta la tua rabbia, di vomitare tutto il tuo sdegno contro il mondo, non puoi dopo meravigliarti, se tra il pubblico, non presenziavano monaci buddhisti ma cani assatanati. So b...enissimo di essere un individualista, egoista, fancazzista e che vorrei, a volte, stare sul palcoscenico alla Nanni Moretti e urlare: “Pubblico di merda”, come gesto liberatorio, ma so benissimo che questo privilegio lo può solo avere un’élite di persone: i pagliacci. Sì, perché per essere un pagliaccio bisogna allenarsi molto, prepararsi, bisogna essere credibili, ma soprattutto avere un’intelligenza fuori dal comune e un livello di autoironia notevole, se no diventi sbruffone. La linea che divide un gran pagliaccio da quello dello sbruffone è sottile: nel primo caso ottieni rispetto dal pubblico anche se lo prendi per il culo, nel secondo caso sei sprezzante e credi di essere diventato un genio, o peggio dio. Ma dio non sa di essere dio. Chi si mette in mostra e decide di prendersi questi rischi, è perché vuole fare quello che più gli piace, ripeto: E' PERCHE' VUOLE FARE QUELLO CHE PIU' GLI PIACE. Quindi, quindi, quindi, che tu possa interpretare Shakespeare o che prenda a calci un pallone, il "Pubblico" viene prima di tutto; poi, ma poi poi, pensi a te stesso quando si è chiuso il sipario: sia che tu abbia preso applausi e fiori o che tu abbia preso fischi e pomodori.
Se nooo... fai il Pubblico!!!

giovedì 6 ottobre 2016

Jane e Bill


Jane aveva i suoi ritmi stravaganti. Jane era una sognatrice distrattamente ad occhi aperti. Jane dimenticava tutto l’occorrente, anche la lista della spesa, per non dire gli appuntamenti. Ogni volta che tornava a casa deponeva svagata dappertutto le sue cose: le chiavi all’estremità del tavolo, il cappellino azzurro sulla sedia a dondolo, la borsa di finto coccodrillo sul davanzale della finestra... del tinello, la giacca di finta pelle d’asino sul comò della camera da letto, le scarpe col tacco lanciate sotto il letto, le mutandine di pizzo sulla cornetta del telefono e il reggiseno imbottito sulla cornetta della doccia dell’idromassaggio: sarebbe stata in grado di telefonare in Pennsylvania con l’acqua calda che gli scorreva nell’orecchio. Quando usciva dalla doccia tutta bagnata in punta dei piedi, si aggirava furiosamente come un avvoltoio, con lo scopo di trovare almeno un asciugamano, ma mancava all’appello pure l’accappatoio. Perdeva tutto: she lost everything. Il giorno dopo era costretta a rifare le chiavi di casa in ferramenta e andare in tutti i negozi di abbigliamento a fare shopping. Le sue cose magicamente sparivano come i camaleonti svaniscono sulle foglie e sui rami. Lei lo chiamava “mimetismo fotonico” perché lo aveva letto su Focus, il suo mensile preferito, l’unica cosa che non appoggiava mai in nessun luogo, e lo teneva sempre sottobraccetto.
Un giorno dovette fare un trasloco, andava a vivere in un appartamento in centro, più easy in stile feng shui, con letti, armadi, elettrodomestici a muro, per poter gettare finalmente ogni cosa sul pavimento.
- Senti, qui abbiamo 1245 chiavi tutte identiche, 3456 mutandine di pezza, 3456 reggiseno artefatti, 2456 borse finte coccodrillo e 6777 scarpe col tacco, che tra l’altro un paio sono spaiate – disse Bill, un ragazzone del Montana di origini indiane.
- Ah sì, una l’ho lanciata al mio ultimo ragazzo.
- Che facciamo?
- Ti andrebbe un caffè sul terrazzo?
Da quel giorno, Bill e Jane, si frequentarono e s’innamorarono di brutto.
Lui chiese a lei per 18250 volte di sposarla e Jane per 18250 volte perse l’anello di fidanzamento, che Bill trovò per 18250 volte in un luogo diverso sul pavimento, di quell’appartamento in centro, più easy in stile feng shui, con letti, armadi, elettrodomestici a muro.
50 anni insieme senza sotterfugi e senza inganni. Non si sposarono mai.
Un giorno a Jane venne un forte dolore al petto e cadde a terra. Bill cercò invano di rianimarla. Le ultime parole di Jane furono:
- Ho scritto una lettera per te!
Bill la cercò per 365 volte in un luogo diverso sul pavimento, di quel cazzo di appartamento in centro, più easy in stile feng shui, con letti, armadi, elettrodomestici a muro, col rischio, preso dalla disperazione, di dormire qualche notte dentro il frigorifero. Poi, anche a Bill venne un forte dolore al petto e cadde a terra, sul pavimento che conteneva ogni ben di Dio. Quella lettera fu il miglior camaleonte della storia di Jane, nessuno, neanche l'F.B.I, in mezzo a quelle innumerevoli cianfrusaglie, scovò mai quel fatidico foglio.
Su quella lettera c’era scritto:
“Bill, certo che lo voglio!”



martedì 4 ottobre 2016

Vita


Fine era il suo modo di stare raggomitolata.
Intrecci, fili spinati negli abbracci.
Zona recintata, i denti la tronchesina,
spezzare il ferro dall’emoglobina.
Un varco, passarci sotto,
ad ogni graffio una penitenza per un gioco perverso.
Strapparsi la carne dalla fretta,
togliersi la pelle troppo stretta.
Linfa che scorre nell’imperizia,
il cuore divide il bene dal male,
un misto di nutrimento e immondizia,
il respiro cambia canale.
- Dove trovi le parole?
- A cazzo, su google!
- Sembri Burroughs.
- Io non ho la scimmia sulla schiena.
- Dove eravamo rimasti?
- Al respiro che cambia canale.
- Continua…
Oh, vita così magra,
tutta pelle e ossa,
mangia qualcosa,
la tua debolezza m’inquieta.
Ogni parola un pezzo di pane,
ogni rima l’acqua per dissetare,
adesso ti prendo in braccio e ti metto a letto.
- Dammi un bacio!
- Dopo, ora spengo tutto.
- Sono forte sai?
- Presto ti riprenderai.


domenica 25 settembre 2016

Esco


Esco.

Ogni singolo cammino ripetuto forma un solco

Cresce il seminato

Ogni passo un ramoscello

Una foresta alle spalle dove non ci sono mai stato.

Esco.

Piante dei piedi

Piante che mettono radici

Pianti di lupi

Occhi illuminati cercano un bastone da stringere tra i denti

Ringhiano i miei incubi.

Esco.

I piedi affondano nelle sabbie mobili

Le miei braccia i manici

Terra cotta raccolta con cura

Messa in un tornio che gira

Mani sulla mia vita

Prendo forma

C’è un’apertura

Il vaso di Pandora.

Esco.

Sono un genio

Esaudisco il tempo trascorso

L’amore per me stesso

Un incontro fortuito

Un coraggio inatteso

Brucia ogni parte del corpo

Il prezzo è stato pagato.

Esco.

Torno subito.

Un cartello in un negozio di antiquariato.
Entro.


lunedì 19 settembre 2016

Lory


Mi innamorai pazzamente di Lory ad una festa di paese. Ci trovammo, non so come, di schiena.
Un appoggio improvviso, e poi ci girammo di scatto.
- Scusa.
- Niente
Una cometa nel cielo notturno. Lei aveva 14 anni io 18. Per fortuna in quel periodo Shakespeare non l’avevo mai letto. Era proprio una bella ragazza, di quelle che quando le guardi ti accorgi che niente è fuori posto. Cominciai ad andare a casa sua, dato che mi invitava sovente. I genitori stavano in cucina, e lei mi parlava del suo ragazzo di cui era innamorata. Una gran rottura di palle sentire le loro vicende mentre io pensavo a come fare per conquistarla. Suonava la chitarra, e cantava canzoni in inglese: erano sue, erano belle, perché non le capivo. Andammo avanti così per un po’ di anni, lei cambiò due o tre fidanzati, continuando a parlarmi di loro. Un pomeriggio d’estate la portai a prendere il sole sulle rive di un fiume. Stavamo lì a farci abbrustolire dal sole. Lei teneva gli occhi chiusi in attesa di qualcosa. Io la guardavo nel suo splendore: una sirena con due belle gambe, meglio di quelle che sbucano dal mare. Non riuscivo a decidermi, tremavo come un deficiente. Si mise a piovere e corremmo dentro la macchina. Restammo lì quasi due ore. Ed io non feci nulla, porca vacca, nulla. Era troppo bella. Pochi giorni dopo si mise con un tipo, e io presi coraggio: le scrissi una lettera d’amore. Non ne parlammo mai, non facemmo mai un accenno. Chissà se conserva ancora quella lettera in qualche cassetto.
Qualche mese dopo portai la sorella nello stesso posto e feci esattamente la stessa cosa.


venerdì 9 settembre 2016

Mariella


Arriva sgusciando tra la folla. Ti dà l’impressione che cammini sulla luna. Non che io sappia effettivamente come si passeggi per la luna, ma ho compreso da Armstrong che lassù si saltella. Ecco, lei saltella in barba alla forza di gravità. Quando appare all’improvviso non sai se hai a che fare con Pippicalzelunghe o con Giunone, ovvero, quando pensi di averla inquadrata, lei ti cambia la prospettiva. Sorride sempre come una puledra ed è pettinata come una cavalla: che sono la stessa cosa. Nessuno l’ha mai vista piangere, quelle poche volte che è successo rideva. Mariella vorrebbe far incontrare gente che non ha voglia di incontrare nessuno, ma ha la capacità di una giocatrice di scacchi, perché è in grado di mettere in dialogo pedoni con alfieri e torri con cavalli, lasciando perdere il re e la regina che sono troppo nobili per i suoi gusti. Quindi, senza ombra di dubbio, Mariella saltella.

- Lei è Marina. Hai cinque minuti.

Mariella è fatta così, quando la incontri ti infila, senza che tu glielo abbia chiesto, in un speed date, in mezzo a una piazza, dopo un concerto.



lunedì 29 agosto 2016

Olivetti

Olivetti per me fu l’infanzia. Assistenza sanitaria, corsi di nuoto e sci, vacanze e altro ancora. Andai in tutte le colonie, a Marina di Massa in Toscana, a Brusson e a Saint Jacques in Valle d’Aosta. A dieci anni attraversai le cime bianche fino a Cervinia, scivolando con i sacchi di nylon sulle ripide innevate, a più di 3000 mt di altezza (oggi sarebbe improponibile a qualsiasi genitore). Ho conosciuto bambini di Roma e Napoli che quando videro la neve sembrava avessero visto la Madonna.
- Aò, è veramente fredda! – mi facevano coricare dal ridere con il loro dialetto incomprensibile.
Cantavamo “Juppi ja ja” mentre camminavamo, e mangiavamo zollette di zucchero con i spicchi di limone e panini al salame con il tè caldo. Un animatore, ogni sera, ci raccontava la storia dell’uomo pigna: non ricordo nulla delle sue avventure, ma so che combatteva la piovra, e ogni giorno, in battaglia, le staccava un tentacolo, uno alla volta: era un ottimo modo per farci dormire. Quindi, tutti i giorni si faceva qualcosa: sport, giochi e lunghe camminate in montagna.
Erano gli anni 70, e non è che le cose andassero bene, economicamente parlando, ma in quel contesto mi sono formato come persona forte e responsabile. Non avevo paura.
Ero convinto che l’Olivetti sarebbe durata per sempre, e che avrebbe dato lavoro a tutti, per intere generazioni. La storia purtroppo disse il contrario e quando all’età di 20 anni trovai lavoro, ebbi la fortuna di entrare in una grande azienda come la Pininfarina, che si era stabilita in Canavese, ovvero, dalle mie parti. Era la fine degli anni 80. Dopo sei mesi divenni delegato sindacale, perché c’era un posto vacante e nessuno lo voleva fare. Mi feci avanti io, convinto che in una grande azienda come quella si potesse fare delle cose interessanti per la comunità intera. Alla prima riunione con le maestranze aziendali, dopo che si erano toccati tutti i punti dell’ordine del giorno, alzai la mano e mi presentai, facendo subito una domanda:
- Scusate, come mai non c’è una biblioteca?
Silenzio. Rincarai la dose.
- Perché non fate corsi di computer e di inglese? Perché non c’è la piscina e i campi da tennis? E perché non c’è il dentista o il gastroenterologo?
Mi presero per pazzo e mi dissero per quale motivo avanzavo queste richieste.
- No, niente, ho preso spunto dal punto 3 dell’ordine del giorno, che dice “Varie ed eventuali”.
Ero il delegato delle “varie ed eventuali”, cioè quelle che non c’entrano un cazzo. Infatti nessuno mi ha mai veramente capito.
Che ci volete fare, ero ancora quel bambino convinto di non aver vissuto un sogno.
- Con la cultura non si mangia! – mi disse un giorno un operaio in mensa.
- È vero, con la cultura non si mangia – risposi – con la cultura ci si nutre, che è cosa ben diversa!

mercoledì 24 agosto 2016

Le tre e trentasette

Un paese lo riconosci dal campanile. Non c’è paese che non abbia un campanile: ma sì, quella matita a punta pronta a suonare a tutte le ore.
Mio nonno suonava le campane. Le suonava con una pietra che conservo sul davanzale. Chissà dove la raccolse, chissà perché decise che fosse quella giusta: quella per far suonare la campane la domenica mattina prima della messa.
Tre colpi notturni, e tutti dormono protetti. È l’ultima volta, poi, ha pensato bene di cadere, smosso dalla terra infame, a prendersi nel sonno lo stesso numero di vite dell’ora successiva.
Un paese lo riconosci dal campanile, chissà per quale strano motivo non si è fermato, come ha fatto quell’altro, che ha arrestato le lancette alle tre e trentasette.

giovedì 18 agosto 2016

Clair de lune


Scusa se ti entro in casa… l’ho vista aperta… la finestra… che fai? mi vien da ridere… non volevo farmi gli affari tuoi... potresti spegnere la luce... sono una stupida vanitosa… ma che ci vuoi fare sono piena... ecco una nuvola… torno subito… non vado via… il vento è stato gentile... ci sei ancora? ma qui sto parlando solo di me… bene... oh, ma guarda, stai scrivendo ogni parola... oddio… dovrei prepararmi qualcosa… non sono abituata… ho messo su la prima cosa… tu scrivi… andiamo… al massimo dopo correggiamo.
Non sono luce, anche se può sembrare
quello che vedi è solo il riflesso del sole
il buio è un grande vuoto
le stelle lontane sono candele
ogni tanto sparisco, qualche giorno
a volte sono un quarto distante il giusto
vorrei solo che mi guardassi per quella che sono
e so che lo fai, diamine, e ne sono felice
ho timore, lo so è strano
sono attratta, solo fino ad un certo punto
vieni da me, ti faccio il caffè
ah, già, poi non dormi, domani torni?
hai gli occhi stanchi
non chiudere, lasciami sdraiare
stai andando a letto, ti vedo sparire
vorrei gridare
qualcosa ci accomuna
non ti ho detto il mio nome
mi chiamano Luna.

lunedì 1 agosto 2016

Quella piccola donna che zampettava nella radura


Anni fa, ero andato con i miei genitori nelle Marche, in un agriturismo, nell’entroterra, tra le colline ondulate piene di grano di giorno e piene di lucciole notturne. Una mattina mi svegliai alle sette e uscii sul balcone a godermi il sorgere del sole. Quando sbucò, mi prese gli occhi e mi schiaffeggiò le gote. Li tenni socchiusi qualche secondo per abituarmi al suo flash accecante, poi mi voltai per difendermi e riprendere la vista nell’ombra. Quindi, mi girai di scatto e lo sfidai guardando con gli occhi spalancati il paesaggio dorato.
In lontananza vidi una sagoma femminile che correva per le strade sterrate. Zigzagava, saliva e scendeva. Aveva una cadenza precisa: passi corti e veloci. Le braccia oscillavano rapidamente come una macchina da cucire, ed era imbacuccata con diverse maglie addosso con colori differenti, una bandana in testa e un girasole in mano. Se non avesse avuto sembianze femminili avrei pensato che fosse Celentano. Pareva potesse prendere il volo come un uccellino da un momento all’altro, grazie ai raggi del sole alla schiena. Ero affascinato da quella piccola donna che zampettava nella radura e la seguivo con lo sguardo: ogni tanto spariva nella valle per poi spuntare sulla cima di una collina. Un sali e scendi di un cartone animato. Intanto il pianeta terra si mosse lentamente, come è solito fare, portando il sole più in alto, la vidi arrivare.
Era lei. Aveva 70 anni, allora.
- Sono andata a fare una corsetta.
Per la prima volta in vita mia vidi mia madre correre come una cavalletta.


venerdì 15 luglio 2016

Andria - Corato - Nizza

- L’ho appena preso in tempo.
- È come al solito in ritardo.
- Beh, per una volta non mi lamento del ritardo, è stata una fortuna.
Si sorrisero. Lei si sedette mezza indaffarata e mezza spettinata. Lui aveva appena recuperato le materie e ascoltava musica indie con le cuffiette nelle orecchie. Fuori dal finestrino gli ulivi scorrevano velocemente.

- Sei uno spettacolo!
- Grazie!
- Pirotecnico.
Uscirono con i figli. Uno era appena nato. Il lungo mare dava una sensazione di pace, di sicurezza.
- Pronto, nonno?
- Ciao, tesoro.
- Cinque minuti e arrivo.
- Ti aspetto.
Tolse le cuffiette, prese la borsa e se la mise sulle gambe. L’aprì e infilò dentro l’ipod, e pensò a quante cose aveva dovuto recuperare: amicizie, rapporti, la corsa dietro a un pallone perso a centrocampo. Lei fece andare su e giù la gamba destra. Lo faceva sempre, come se sentisse la necessità di essere sempre pronta a scappare. Da bambina venne morsa alla gamba da un cane mentre correva. Aveva ancora i segni dei canini sulla coscia. In quel istante passò la mano proprio lì perché sentì un leggero dolore, quelli che vengono quando cambia il tempo.
- Il bambino sta piangendo.
- Sono finiti, tesoro.
- Mi sento spaventata anche io.
- Vuoi che andiamo?
- Sì, c’è troppa gente.
Presero la via contraria. Tornavano a casa in mezzo alla strada, a quell’ora nessun mezzo circolava. Si girarono e sentirono altri spari pensando che non fossero finiti i fuochi artificiali, e guardarono il cielo.


https://youtu.be/xnLhDt4dCbw


domenica 26 giugno 2016

Sasha

Era un bimbo piccolo piccolo che viveva in un luogo lontano lontano. Aveva trecento albe e trecento tramonti di vita visti da una grande finestra di un posto chiuso. Si chiamava Sasha. Sasha attendeva e attendeva, che cosa attendesse, lui non lo sapeva. Si presentarono in molti, ma per un motivo, che secondo loro era valido, si rifiutarono di sollevarlo dall’attesa. I dottori dicevano che Sasha aveva qualcosa che non andava, che avrebbe potuto avere problemi, che c’erano cose... che… bla bla bla… qualcosa a che fare con… bla bla bla. Un giorno si presentò una coppia venuta da lontano lontano. Lei vendeva semi e lui era l’addetto dell’acqua. Quello fra di loro non fu solo un matrimonio ma un connubio perfetto. Quando seppero dei bla bla bla, i loro occhi si spalancarono verso un futuro diverso dalle prospettive che si erano posti prima di partire. Decisero, comunque, di volerlo vedere, poi, avrebbero deciso cosa fare. Quando entrarono nella stanza, Sasha si girò verso di loro.
– Pa pa – disse.
Lui non resistette e andò a prenderselo tra le braccia. Lei rimase ferma e le venne l’istinto di uscire. Tornarono a casa, lui pieno come il mare e lei una piantina senza terra e senza radici. Lui avvio le pratiche e lei lo lasciò fare. Quel mese ci fu troppa acqua e pochi semi da spargere.
Quando tornarono, la seconda volta, nella stanza della grande finestra, Sasha era sempre lì con qualche alba e qualche tramonto in più. All’addetto dell’acqua venne subito l’istinto di andarlo a prendere, ma Sasha fece un piccolo gesto con la mano e lui obbedì come se avesse incontrato una diga nel suo percorso. Sasha guardò la venditrice di semi piegando la testa di lato. La finestra e la porta erano entrambe aperte e la corrente d’aria spostò le lunghe tende avanti e indietro come bianchi angeli appesi che vanno e che vengono. Rimasero lì. Si presero il tempo necessario per acconsentire a lei di metterlo al mondo. Quel giorno Sasha nacque per la seconda volta.
(Il venditore di incipit)


“Non ci vuole passione, ma compassione, capacità di estrarre dall’altro la radice prima del suo dolore e di farla propria senza esitazione.”
(L'idiota - Fedor Dostoevskij)