mercoledì 25 marzo 2015

Frequenza


- È una questione di approccio…
Parlava così, mentre le sue dita massaggiavano delicatamente i tasti del pianoforte. Assomigliava a un bravo chiropratico quando sa armonizzare le vertebre di un corpo di energie sospese.
Aveva tatto.
Riconosceva i punti da far suonare per riequilibrare un ambiente chiuso. Toccò un tasto.
- Vedi?
Io più che altro sentivo.
- Devi sapere che la cura sta nell’approccio. Il primo istante.
La guardavo senza capire. Certo era, che da quando ero entrato in quella stanza: ero guarito.
Le sue dita sembravano andare avanti e indietro: da sole, mentre lei respirava regolarmente altrove.
- L’uomo segue procedure standard. Vive dentro un protocollo. Non ha capito che dopo l’insegnamento alla vita deve necessariamente seguire la sua intuizione.
Parlava così. Se non fosse stata una pianista, avrei detto che era una ballerina passata dagli insegnamenti meticolosi di Pina. Ogni cosa per lei aveva una storia.
- La vita devi conoscerla.
Tra un suono e l’altro se ne usciva con queste frasi a effetto. Sta di fatto che stava accordando il mio cuore, facendo vibrare ogni singolo meridiano del mio corpo, con garbo; e lo faceva senza toccarmi, sfiorandomi la pelle con le note e accarezzandomi le orecchie con le parole.
- Posso tornare? – dissi di conseguenza.
- Tutto dipende dalla frequenza!


https://youtu.be/9hVFCmK6GgM

domenica 22 marzo 2015

Romy

Romy era fatta così.
Era pettinata. Cioè, i suoi capelli stavano bene nella sua testa. Aveva buon gusto in tutto e teneva la casa come uno splendore. Romy sapeva fare bene l’amore. Aveva un cane e tre gatti. Romy viveva sui tetti. Non aveva un letto, aveva i materassi. Con lei dormivamo tutti quanti: io, il cane e i gatti. Quindi sembrava funzionare, l’inizio non era male. Il problema vero era che lei fuggiva, e pure io. Scappavamo per andare a casa. A lei piaceva Pedro Salinas, a me piaceva “La voce a te dovuta”. Romy era fatta così, si faceva amare, poi decidemmo di non continuare.
Certe cose vanno così, non si possono spiegare…
https://youtu.be/PeK-xAvSIdg

mercoledì 18 marzo 2015

Carro attrezzi


“Per una persona speciale”.
Questo biglietto era sul suo parabrezza con una rosa bianca infilata nel tergicristallo. Helen si guardò intorno e poi riflessa. Voleva capire quanto fosse speciale.
Prese il fiore. Prese il biglietto. Avevano lo stesso odore. Entrò in macchina e rimase a pensare. Non aveva voglia di partire. Decise di restare. Tenne le mani sul volante e si guardò intorno, e ficcò i suoi occhi negli specchietti, per vedersi, per penetrare dentro di sé, per scoprire quanto fosse speciale da prospettive diverse. Non voleva partire. Appoggiò la testa contro il finestrino e si mise a dormire. La rosa era sempre sul sedile.
Venne svegliata dal carro attrezzi. Tirò giù il finestrino e vide un tizio in tuta da lavoro che azionava il dispositivo che trascinava la vettura sul camioncino:
- Sei in ritardo!
- Ciao Tesoro!
Si erano conosciuti lì anni prima: il giorno del suo compleanno, in sosta vietata, a ridosso del semaforo.
- Ricordami perché facciamo sempre questa cosa?
Scattò il verde. Lui partì senza fiatare. Mentre lei rimase ferma in macchina sulla schiena del carro attrezzi, come quella che si aggrappa a qualcuno che non sa dove portarla.

martedì 17 marzo 2015

Giudicare inutilmente

- Non me lo doveva fare!
Erano anni che ripetevo questa frase. Una volta la dissi a mio padre e un’altra volta a mia madre, e poi a mio fratello e a mia sorella, e poi al mio migliore amico e al primo amore. Chissà a quanti altri lo dissi che ora non ricordo. Ogni volta una delusione, un ricordo, un iceberg profondo. Certo, poi dimentichi, ma quella roba lì, quello che ti hanno fatto, quello non si cancella, resta indelebile.
- Questa me la paga!
Erano anni che ripetevo questa frase. Una volta la dissi a mio padre e un’altra volta a mia madre, e poi a mio fratello e a mia sorella, e poi al mio migliore amico e al mio primo amore. Chissà a quanti altri lo dissi che ora non ricordo. Ogni volta una delusione, un ricordo, un iceberg profondo. Certo, poi dimentichi, ma quella roba lì, quello che ti hanno fatto, quello non si cancella, resta indelebile.
- Bastardo!
Erano anni che ripetevo questa parola. Una volta la dissi a mio padre e un’altra volta a mia madre, e poi a mio fratello e a mia sorella, e poi al mio migliore amico e al primo amore. Chissà a quanti altri lo dissi che ora non ricordo. Ogni volta una delusione, un ricordo, un iceberg profondo. Certo, poi dimentichi, ma quella roba lì, quello che ti hanno fatto, quello non si cancella, resta indelebile.
Un giorno, un giorno qualunque, mi stancai. Si ruppe qualcosa nel mio meccanismo logico-credente-cazzone-limitante. Quel giorno fui libero, perché fondamentalmente mio padre, mia madre, mio fratello, mia sorella, il mio migliore amico, il mio primo amore e tutti gli altri che non ricordo, non mi fecero proprio un cazzo di niente.

domenica 15 marzo 2015

Ferdinand and Evelin

Ferdinand disse a Evelin una sacco di bugie. Dichiarò di essere proprietario di un’officina con un paio di operai, per farle credere di essere un uomo benestante. A Evelin non fregava niente quanti soldi avesse quel tipo, a lei interessavano le sue bugie: era divertente ascoltarle. Evelin capì subito che razza di uomo aveva davanti. Un uomo che mentiva per amore.
- Le donne sanno tutto degli uomini! - le aveva detto un giorno la sua nonna quando lei era ancora piccola, solo che adesso lo aveva capito, prima non sapeva di cosa stesse parlando.
Ferdinand faceva il militare, Evelin faceva la serva.
Andavano lungo i viali alberati a baciarsi sulle panchine, un’ora, nei fine settimana. Infatti in quel periodo ci si poteva incontrare poco, dato che c’erano regole del buon costume, soprattutto per le giovani ragazze. Si sognavano tutta la settimana per sessanta minuti alla domenica. Troppo poco per consumare un amore. Un’ora era un incendio che nessun vigile del fuoco avrebbe potuto spegnere. Un giorno Ferdinand fece una cazzata e venne trasferito. Andò a salutare Evelin per l’ultima volta. Sapeva che era un poco di buono, quindi le diede un indirizzo sbagliato. Quel giorno la baciò così bene che lei due mesi dopo decise di scrivergli una cartolina. Sarà stata una serva ma non era una stupida. Mise solo il suo nome e la città di provenienza, e la spedì senza troppa aspettativa. Quella cartolina fece il giro del mondo, nel senso che passarono alcuni mesi prima che venisse recapitata nel posto giusto. Un giorno il postino suonò al campanello di una cascina in mezzo alla campagna. Ferdinand aprì la porta e si vide consegnare la missiva. C’era scritto: “Ciao, stai bene? La tua Evelin”. Quel “tua” lo fece innamorare all’istante, e la andò a prendere in capo al mondo, in un luogo distante. Il viaggio fu lungo fino al termine della notte. Bussò alla porta e si trovò lei ad aprire:
- Evelin, io vivo in una stamberga e mungo le vacche…
- Ferdinand, l’ho sempre saputo.
- Chi te l’ha detto?
- Mia nonna, quando non sapevo ancora niente.


Sesso

Intorno ai diciassette anni o giù di lì, giocavo a calcio e me la cavavo. C'era un mio compagno di squadra che aveva una sorella niente male: aveva il culo a mandolino e le puppe a pera. La notte la sognavo e la desideravo eroticamente sotto le coperte. Un giorno il desiderio diventò realtà e ne facemmo d'ogni... Nei giorni a seguire, una domenica, mentre mi sciacquavo i capelli dallo shampoo sotto la doccia, dopo una partita, suo fratello mi era accanto e mi accorsi che aveva anche lui lo stesso culo a mandolino e pensai:
- Niente male.
Nel giro di pochi secondi, tutto il mio sangue prese un'unica direzione.
Uscii dalla doccia di corsa e misi velocemente l'accappatoio. Tremavo come una foglia, e ripetevo nella mente:
- Nooooooo. Non sono frocio, dai, non sono frocio, nooooo.
Andai a casa e quella notte ebbi una serie di incubi. Il primo essere cacciato dalla squadra tacciato come un pederasta. Il secondo dieci sedute obbligatorie di elettroshock. Il terzo, e forse il più pericoloso, dieci sedute dal prevosto. Per fortuna la mattina seguente archiviai la cosa in modo naturale:
- Dai, hanno lo stesso culo.
Perché se avessi raccontato a un adulto questa vicenda in modo papale papale, oggi sarei stato vescovo per non dire cardinale

domenica 8 marzo 2015

Wonderful tonight


- Dio quanto sei bella!
Lei ebbe un sussulto. Non si era accorta di me. La osservavo appoggiato alla porta. In quel periodo fumavo qualche sigaretta. Era davanti allo specchio che si guardava attenta. Aveva un aderente vestitino corto nero e i capelli le grattavano la schiena nuda. Le gambe bianche erano troppo lisce, macchiate da una voglia di caffè sotto il suo ginocchio destro. Al mattino la chiamavo “latte-macchiato” mentre lei mi chiamava “zucchero”: mancava soltanto il cucchiaino.
- Nessuno mi ha mai amata così! – mi disse mentre infilava le scarpe seduta sul letto.
Andai in cucina a spegnere la sigaretta. Tornai da lei che era pronta per uscire. Mi baciò sulla bocca e mi chiese:
- Non smettere mai di essere così!
Non dissi niente. Aprii la porta d’ingresso e la feci passare. Le sue scarpe facevano rumore. La guardai che scendeva le scale tenendo la mano sulla ringhiera. Aveva entrambi gli emisferi in armonia. Sapevo che l’avevo già persa, ma in quel momento era mia, solamente mia.


http://youtu.be/qwprrAEL9-E

sabato 7 marzo 2015

Questo è il bacio

- Questo è il bacio!
Mi si chiuse un occhio, umido come una busta di una lettera. L’altro rimase aperto come un oblò di una lavatrice in centrifuga. Mettesti la tua mano sulla mia guancia come per attaccare un francobollo, e viaggiai spedito, come un falco pellegrino, mentre le nostre labbra si toccavano e prendevano fuoco.
- Questo è il bacio!
Alzai la testa verso il cielo azzurro e vidi un uccello bianco. Sullo sfondo montagne di fine inverno. La neve sulle punte, il verde all’esterno. Volava solitario. Aveva ali a forma di boomerang come quelli che vorrebbero tornare indietro, e virava come un aereo in decollo. Lo vidi di traverso. Assomigliava a un pezzo di ghiaccio, pareva un tatuaggio nel cielo, un aquilone impazzito. Forse era solo un gabbiano che si era perso, mentre mi soffiavi sul collo.
- Questo è il bacio!
Non si può avere tutto sotto controllo. Non si può. Non fui capace a trattenere le lacrime quando mi raccontasti una storia triste. Non fui un bravo idraulico che sa chiudere tutti i rubinetti che perdono gocce notturne rumorose. Non si può avere tutto sotto controllo mentre tenevo appoggiate le labbra sulle tue tempie.
- Questo è il bacio!
Avevi la tua faccia nelle mie mani. Ti piaceva immergerti tra le mie linee del destino, per scoprire le strade a forma di iperboli, dove ci passavi la lingua quasi per solcarle. Poi, come se volessi girare una carta da gioco, andavi sul dorso per scuotere gli occhi e per far dondolare il naso, mentre con la bocca, giocavi a far incastrare le tue labbra, tra un dito e l’altro, senza farci troppo caso.
- Questo è il bacio!
Avevi camminato per ore, tra le strade che dividevano le nostre case. Lo avevi fatto per raggiungermi. Eri entrata di corsa, lasciando la porta aperta. Ti eri tolta le scarpe e ti eri buttata sul letto. Avevi le gambe a pezzi, i polpacci duri, e stavi a fissarmi, mentre io tenevo tra le mani i tuoi piedi. I tuoi alluci appoggiati sulla fronte mi sorreggevano la testa, e si specchiavano di profilo come due bernoccoli. Avevo gli occhi chiusi e scivolai con la bocca tra i tuoi malleoli.
- Questo è il bacio!
Andammo a turno a baciarci la vita. Inarcammo la schiena, tenemmo a lungo il respiro e spostammo indietro la testa.
- Questo è il bacio!
Ci dicemmo sottovoce mentre il vento sbatté la porta.

http://youtu.be/kvLymDTOzXo

mercoledì 4 marzo 2015

Lucy

 
 
Era caduta dall’alto di un precipizio. Si gettava sempre a corpo libero. Era la classica tizia che sveniva ai tuoi piedi. Non so perché fosse così bambola. Sembrava fuoriuscita da una collana spezzata, e come una perla, rimbalzava e rotolava tra le lenzuola.
- Mi hai abbindolata.
Lucy era fatta così. A letto perdeva sempre il filo o meglio il bandolo della matassa. Non ho mai capito quanto fosse sincera, ma se mentiva, mi piaceva molto come lo faceva.
- Dove siamo rimasti?
Era adorabile. Amavo la sua schiena quando si voltava, e la sua gamba nuda fuori dalla coperta. La faceva andare avanti e indietro, a semicerchio, come un tergicristallo rotto. La sua mano accarezzava la natica scoperta, e i suoi capelli sparsi sulle spalle, assomigliavano a ramoscelli d’ulivo simboli di pace e armonia. Tutta quella grazia era in casa mia.
- Toccami piano.
Mi stava mandando fuori di testa. Avevamo già dato tutta la notte, e ora che era mattina, la voglia non si era ancora consumata.
- Cosa trovi in me che… – le chiesi sottovoce.
- Hai un certo mood… sentimentale…
Non mi sono mai chiesto cosa fosse un mood, ma suonava bene come un sax.
- Lucy…
- Sì…
Girò solo la testa. Era adorabile.
- Lucy, tu non hai paura?
- In che senso?
A volte rispondeva con un’altra domanda. Lucy sapeva rispondere bene alle domande.
- Lucy, la paura alberga dentro di te?
- Solo se ha prenotato!  




http://youtu.be/sCQfTNOC5aE

martedì 3 marzo 2015

Mio padre

Mio padre è nato il 3/3/33. Niente di malefico, sono i numeri del povero diavolo. Oggi compie 82 anni (28 per la questura). A due anni perse sua madre. Morì di tubercolosi. Non la conobbe. Non ha una foto. Non sa che viso avesse. Non sa niente di niente, non conosce neanche il suo odore. Fece il boscaiolo con il cuore. Amava gli alberi e ci parlava, raccoglieva i funghi e cacciava la selvaggina. È nato in provincia di Varese, in Valtravaglia, in un paese chiamato Bosco. Non c’era posto più adatto. Lui trova i funghi, io li pesto. Mi ricordo da bambino che lui mi faceva col dito di stare zitto, e di stare fermo. Io stavo in mezzo a una decina di porcini che lui raccoglieva intorno, e me li faceva annusare come si annusa al mattino il buongiorno. Io non li ho mai visti, lui li ha sempre ascoltati. Quando andò a militare si innamorò di mia madre. A Torino in via Cernaia. Lei si affacciava al balcone e lui gli parlava. William aveva già capito tutto mezzo secolo prima. Il suo superiore, un capitano, gli propose di lavorare nelle ferrovie. Erano gli anni cinquanta, era un posto statale. Lui rifiutò, perché non voleva stare lontano dal suo ambiente vitale. La vita era dura e quindi si trasferirono in Canavese, perché l’Olivetti garantiva una vita migliore. Stettero in una catapecchia a Vidracco in Valchiusella. Il bosco c’era, stava dietro alla casa, e c’era anche una vigna. Era felice, malgrado la miseria. Si faceva il bagno nella vasca di plastica e si cagava nell’orto nella latrina agricola. La nostra merda era concime per la verdura. Era così buona che veniva sempre voglia di cagarla. Poi, un giorno, si decise di andare in una casa più grande, più igienica. Il tempo passò e mio padre si ammalò, ambarabaciccicocco. Tanti traslochi ci furono e il bosco era lontano. Un giorno, un dottore, ci disse che non c’era più nulla da fare, e lui si salvò, ambarabaciccicocco. Non ve lo sto a spiegare, non mi va di creare facili illusioni, qui non ci sono magie o giochi di prestigio, e per non essere banale, ma essere ligio, se la mia intuizione non mi inganna: il bosco, per mio padre, è la sua mamma. (E la mia nonna).

Ti sto sognando


Ti sto sognando. Sì, parlo con te. Ti sto sognando. Me ne sono accorto. Adesso. Stai sul lato opposto a guardare il soffitto. Abbiamo appena commesso un delitto. Abbiamo ucciso un mostro. Niente impronte, nessun indizio. Le mani sul collo. Abbiamo perso il controllo. Lo sai come sono i sogni, è inutile che te lo spieghi: un attimo prima sei a molare i coltelli e un attimo dopo sei a lavarti le mani sporche nei ruscelli. Siamo in pericolo. Ci potrebbero scoprire. Nascondo io il cadavere nel baule. Non ridere. Stai lì a far vibrare il tuo sterno dal ridere, a farmi notare le tue vertebre, che come tante radici sorreggono le montagne dalle frane, ora sono lì a far suonare i tuoi seni come le campane. Cos’hai da ridere se non abbiamo neanche fatto l’amore? Cos’hai da ridere se abbiamo appena mandato un brutto incubo al creatore? Ti sto sognando. Siamo nudi dalla testa ai piedi, troppo nudi per i nostri gusti, a noi che piace correre a nascondersi esausti, per non essere troppo protagonisti. Ora abbiamo spostato la testa e ci guardiamo la bocca. Taci. I nostri denti come barriere imprigionano la lingua ma non impediscono i baci. Ci siamo appiccicati. Ridiamo a crepapelle…
- Finiremo dietro le sbarre.
- Non ti distrarre.
- Le accuse sono gravi.
- Ho già buttato le chiavi.