martedì 29 luglio 2014

Filtro


Aveva un bisogno assoluto di un filtro magico, qualcosa che poteva rendere i suoi pensieri più neutri possibili. Sapeva che non esisteva nella realtà, benché ci sperasse. Non sopportava l’idea di dover avere pregiudizi, anche se era inevitabile. Voleva a tutti i costi trovare leggero il peso della coscienza. Un giorno si diresse al parco e si sedette su di una panchina. Vide molte persone che passavano e provò una sorta di fastidio. Avvertì nel suo corpo un disagio inaspettato fatto di emozioni contrastanti. Se aveva un barlume di felicità, un secondo dopo se ne vergognava, pensando che era una sensazione troppo grande per esistere, e gli venne addosso, come un fiume in piena, un’eccessiva vulnerabilità. Chiuse gli occhi e provò a immaginarsi nel grembo di sua madre. Se ne stava lì rannicchiato nella placenta, nella posizione fetale. Non faceva nulla se non stirarsi ogni tanto le gambe e le braccia. Era immerso in quell’acqua calda e non respirava. Già, lì dentro non si respirava, e gli sembrava strano dato che non era un pesce. Come poteva essere vivo senza respirare? – si chiese. Non conosceva nulla se non le vibrazioni di sua madre. Era nel niente di niente, in nessuna logica. Non soffriva di claustrofobia, non aveva intolleranze alimentari, non sapeva che due più due faceva quattro, e non sapeva che si muore una volta nati. La forza di gravità e la sua natura decisero di farlo uscire da un tunnel che poteva anche essere una lunga galleria. Quando uscì, il primo boccone fu l’aria e si mise a piangere. Si accorse che l’aria era il primo cibo che aveva ingoiato e che da quel momento non avrebbe mai più smesso. Aprì gli occhi di colpo e prese a respirare affannosamente, dato che, con ogni probabilità, era andato in apnea. Cominciò a fare lunghi respiri, quasi preso dal panico e sentì l’affanno nel plesso solare.
- Si sente bene? – chiese una ragazza che passò di lì.
- Sì. Ha mica una sigaretta?
- Certo. La vuole col filtro?

sabato 26 luglio 2014

Le cassiere del supermarket


Benvenuti, signori!!!!
Sono lucido per scarpe
Sono sapone liquido per le mani
Sono le mie giornate corte
Sono cibo per i cani.
Tanto domani piove. Le nuvole saranno dipinti naturali delle nostre giornate. Ma chi se ne frega! Sarà il buco dell’ozono, il riscaldamento globale e la prossima era glaciale.
Io penso, malgrado il maltempo, alle cassiere dei supermarket. Belle, erotiche e luccicanti. Sono sognatrici, ballerine, attrici. Hanno la loro divisa e ognuna si distingue come un marchio personale. Sanno stare tra i codici barra e le loro pettinature. Le cassiere sanno pettinarsi. Sono underground, lanciano mode come le giapponesi ribelli.
Io faccio la spesa per loro, e compro un sacco di roba solo per vederle strisciare.
Sanno fare i conti che non tornano mai.
Le cassiere sono il bel tempo anche se fuori piove.
Dai a loro la tua carta fedeltà per raccogliere punti, per poterle sposare.
Come invidio i loro mariti!
Non tradirei mai una cassiera per nessuna ragione al mondo… se non con un’altra cassiera.
Benvenuti signori. Domani piove. Arriverà l’era glaciale e i pinguini scivoleranno nelle nostre case.
- Fa quarantacinque euro e trentasette centesimi.
- Come costa la vita!
- Non lo dica a me!

http://youtu.be/1NTswatFK2g

mercoledì 23 luglio 2014

A lui


A lui piacevano Rino Gaetano e Bob Marley. Aveva due vinili ma non aveva un giradischi. A quel tempo avere un vinile era come avere un’opera d’arte. Anche io avevo due vinili senza giradischi: uno erano i Pink Floyd e l’altro Fausto Papetti. Nella copertina di Papetti c’era sempre una donna nuda, e in quel periodo non ne trovavi molte se non su Postalmarket. Avevamo in comune un giornaletto “sporco” di quelli a fumetti, di un certo Lando, che aveva tre palle e assomigliava a Buzzanca. Era bravo con le ragazzine, sapeva sorprenderle e le baciava con una semplicità che invidiavo, io che fino allora, avevo baciato solo il mio cane. Lui fumava le canne, io giocavo a pallone. Diceva che Bob Marley non doveva morire, e poi disse, il mese dopo, lo stesso di Rino Gaetano. Passò dallo spinello alle spade fino alla vasca da bagno. Al suo funerale solo benpensanti, educatori, matematici, statistici e sapienti. L’anno dopo traslocai e me ne andai lontano.
Amava Rino Gaetano e Bob Marley, tra maggio e giugno del ottantuno tutti e tre se ne andarono a fanculo.
- Chi era già?
- Non ricordo...
- Ma era in classe con te.
- Ma lui tagliava...
- E tu?
- Io dormivo sui banchi.


Sto posto

Sei in sto posto. Questo locale tradizionale. Intorno persone che non avresti scambiato neanche due parole. Sei sotto l'effetto di alcuni fumi buoni di un luogo precedente. Hai quel non so che. Una brillantezza che non conoscevi da tempo. Una ragazza di vent'anni di meno ti si piazza davanti. Spavalda, con un vestito che è tutto un programma. Ti trovi costretto a guardarla. Ha un tatuaggio sulla spalla che assomiglia al calendario maya. Una bellezza marziana senza antenne sulla testa e nulla che possa avvicinarsi al verde. È lì, di fronte a te, e non sai che dirle. Non hai parole. Quando ti esce qualcosa che non hai calcolato. Vai verso di lei e le togli un capello dalla spalla. Così senza un perché.
- Scusa!
- No, anzi, mi pesava.


venerdì 18 luglio 2014

Missile (Non si può morire dentro)


Ciao! Vorrei chiederti l’amicizia. Sono qui da pochi mesi. Se ti va ti racconto un po’ di me. Allora, sono fatto di carbonio, ferro, plastica, fili elettrici e ho un cervello. Sì, una specie di computer di bordo che riceve informazioni da un altro cervello più grande, che non ho mai visto, e che tutti definiscono Dio.
Mi dicono che sono intelligente anche se non ho mai letto Platone, ma sai, sentirselo dire fa sempre piacere.
Ho tanti fratelli gemelli, di cui molti sono partiti per chi sa dove. Credo siano andati in un posto bellissimo dove manderanno anche me tra poco. Secondo me è una terra promessa o qualcosa del genere, perché me lo ha detto Dio, e ognuno di noi avrà sicuramente in dono per l’eternità 20 mine antiuomo, per divertirci un po’ in quel paradiso, dove potremo tutti fare i cazzoni.
Sì, perché noi siamo dei gran cazzoni.
Scusami non ti ho ancora detto come mi chiamo: io sono missile e vorrei esserti amico prima di partire.
Ecco, forse ora tocca a me. Ah, non ti ho detto che il mio cantante preferito è Gianni Bella… bella, no?
Mi hanno messo nella zona di lancio, se vuoi ti racconto. Ecco, c’è il conto alla rovescia, sono in fibrillazione… 3…2…1…
Wooooow è una figata pazzesca… una scarica di adrenalina… ho la musica che pompa… sto volando da Dio… che sballo… è una sensazione che non so esprimere… non trovo le parole… forte… bellissimo… ah, sì… ho trovato le parole… una specie di… ecco… sì sì…
un’esplosione di gioia.

R.I.P.

giovedì 17 luglio 2014

Karaoke



Era il 1994 o giù di lì, in quel periodo impazzava il Karaoke. Era una patologia simile ai videopoker, se non peggiore nella sua schizofrenia. Naturalmente, ci cascai anch’io, e presi a passare i miei fine settimana in un locale a cantare a squarciagola. Il mio cantante preferito era Edoardo Bennato, mentre altri andavano sul trio Morandi, Tozzi e Ruggeri per non dire i New Trolls. Ero, più o meno, alla centesima serata di fila e alla millesima performance, quando il gestore decise di fare una gara canora. Io, preso dalla mia furente necessità di esibirmi, decisi di iscrivermi, e andai a fare stretching e lunghi respiri in bagno per prepararmi, e per svuotare continuamente la vescica. Ero deciso e un po’ emozionato, fuori c’era il mondo con gente in ogni dove. Eravamo in otto. Vinsi i quarti di finale stracciando il mio avversario con “Prendila così” di Battisti, lui, che poverino, aveva proposto “Teorema” di Marco Ferradini. In semifinale ebbi l’ardire di cantare De Gregori con “Pezzi di vetro” e la scelta fu azzeccata, dato che l’avversario tentò un improbabile Claudio Villa con “Un amore così grande” che stonò in modo alquanto disdicevole per una gara così importante. Ora, sembrerebbe che questo tizio canti in un complesso di periferia che si fa chiamare “Negramaro”. In finale, trovai lei: Lidia. Una gran voce ma soprattutto un gran culo. Aveva dei fuseaux da far perdere la testa, almeno la mia. In finale decideva la giuria la canzone, e a lei capitò “Non sono una signora” di Loredana Bertè, mentre a me “Disperato erotico stomp” di Lucio Dalla, per rimarcare profondamente la mia indole di sempre, che alberga in me tutt’ora. Sta di fatto, che lei li pettinò tutti con la sua voce e vinse stracciandomi inesorabilmente, perché io presi solo un voto da un tizio pettinato come Billy Idol, con fascia sulla testa, polsini e calzini color fucsia. Non andai mai a ringraziarlo per ovvi motivi, e nessuno da quel giorno lo vide più, neanche la sua famiglia. Persi la gara, ma feci una corte sfrenata a Lidia. La convinsi, la stessa sera, a venire con me al mare il giorno dopo, e lei non si rifiutò (Eh, una volta le cose erano più facili. Tornassi indietro). Era il sabato di Pasqua e quando arrivammo in Liguria non c’era una camera libera se non a Borgio Verezzi. Dovete sapere che in quel periodo andavano tutti al mare a Pasqua, anche quelli come noi. Il mare non lo vedemmo mai perché scopammo come ricci per quasi due giorni interi. Solo a Pasquetta facemmo una passeggiatina di cinque minuti in spiaggia come due zombi che erano appena andati a donare il sangue. Ci demmo dentro alla grande, e cantammo in ogni posizione possibile. Sta di fatto che entrammo in Albergo come Al Bano e Romina e uscimmo come Bob Dylan e Joan Baez. Ci eravamo evoluti. Però, come tutte le cose belle, prima o poi finiscono. C’era troppa competizione canora tra di noi, così, un po’ per orgoglio e un po’ per sfinimento, le nostre performance a letto diminuirono perché non cantavamo più dal vivo ma in playback. Ci lasciammo e ci mettemmo con altri cantanti del locale: due mezze tacche. Volevamo ingelosirci a vicenda per vedere chi dei due era il più forte. Una sera ci ubriacammo entrambi, mandammo a fanculo le mezze tacche e andammo a fare del gran sesso dietro il parcheggio. Rientrammo e lei mi chiese di andare a fare una sfida sul palco, con una canzone di Ron molto in voga in quel periodo:”Vorrei incontrarti tra cent’anni”. Ron non lo tolleravo, già il nome mi narcotizzava e quella canzone mi faceva sobbalzare. Era anche stato un buon artista nel periodo di “Banana Republic”, ma dopo era rimasta solo la banana. Comunque, andammo sopra, ci sfidammo col microfono che assomigliava a una spada e quando finì la performance, lei si avvicinò e mi disse:
- Fanculo, sfigato!
- Fanculo, zoccola!
E non ci vedemmo più. Sono passati vent’anni da allora, quindi ne mancano ottanta…

La 44 magnum dell'ispettore Callaghan

Ci sono giornate come queste che ti mettono alla prova, giusto per verificare il tuo self-control.
La giornata inizia incontrando uno che non vedi da molto tempo e ti dice testuali parole:
- Ho una cosa incredibile da dirti ma ora non posso, ho fretta! – e lo vedi allontanarsi, sapendo che non lo rivedrai per altri cinque anni o giù di lì. Dio, quanto li odio!
E a quel punto che vorresti avere dietro la schiena, infilata nei pantaloni, la 44 Magnum dell'ispettore Callaghan, e sparagli a una gamba. Poi, con una calma zen che non ti riconosci e che non hai mai riconosciuto, andare verso di lui, seguendo quell’adagio che diceva:”Vai adagio”, lui che si sta tenendo la gamba dal dolore da te inferto, dove, con ogni probabilità, la pallottola ha reciso l’arteria femorale, e si sta dissanguando sotto i tuoi occhi, sussurrargli le seguenti parole con un sorriso stampato sulle labbra:
- Dicevi?
Ma se fosse solo questo, direi che ti poteva anche andare bene. Invece decidi di andare a funghi in altura, per i boschi (In piemontese “Su per i bric ai bulè”). E ti fai un bel giro e non trovi niente, neanche uno velenoso. E allora ritorni alla macchina. Giri la chiave, tiri giù i finestrini perché fa caldo, provi ad avviare il motore e niente, auto morta. La batteria è scarica come quella del tuo cellulare. Due batterie scariche come i tuoi coglioni. Provi a fare la telefonata al meccanico che venga su a tirarti fuori dalla merda, e riesci solo a dire dove ti trovi, almeno quello, e speri che l’abbia capito. Certo che lui sta a un’ora di distanza. Nello zaino hai un libro, preso il giorno prima in biblioteca, te lo porti sempre, a differenza delle sigarette che hai lasciato a casa dato che dovevi camminare. E ti fumano… le batterie! Il libro è di Gianrico Carofiglio e si intitola:”Le mutevoli verità”. Ti accorgi subito che è un brutto presagio, dato che di mutevole a quelle altitudini è il tempo. Ma non ti arriva un temporale spaventoso e tu hai i finestrini aperti? In quel momento di disperazione e pioggia battente, non ti viene in mente quella bellissima manovella di una volta quando con fatica alzavi i vetri e che era quasi sempre sicura? Mandi a quel paese l’elettronica e tutta la tecnologia, pensando pure, che in fin dei conti, un editoriale di Michele Serra si può anche apprezzare, ma sei consapevole che stai dicendo una cazzata. Per fortuna hai un ombrello e un plaid nel baule, e la tua auto in un attimo diventa una tenda di qualche zingaro scappato di casa, o forse hai la sindrome del profugo, perché la macchine che passano accelerano di conseguenza. Passano due ore e il meccanico non arriva, e il libro lo hai finito, e guardi la copertina, e ti viene spontaneo pensare: “Carofiglio di puttana”. Dopo tre ore, lui arriva e cambia la batteria. La macchina parte e quel suono del motore diventa per te celestiale. Fai appena un km, accendi la radio e non trovi il Cherubini che ti canta “Penso positivo”?, Quella canzone ti fa pensare due cose veloci veloci: una è che forse a te Jovanotti comincia a starti sul cazzo, l’altra, è che per la seconda volta pensi alla 44 Magnum dell’ispettore Callaghan.
Vabbe’, domani, in quanto sagittario, mi entra giove non so dove, e a quanto sembra avrò un anno di soddisfazioni e successi a gogò. Ah, beh, sì, beh, ah, beh, sì, beh.

lunedì 14 luglio 2014

Ti ho scelta per starmi accanto.


Ti ho scelta per starmi accanto.
Ti ho preso il braccio con le mani e l’ho sorretto come si sorreggono i capelli neri che ti cadono sui lobi. L’ho guardato, sai, dall’omero alle falangi, e ho visto fiumi limpidi e rive alberate di colori cangianti, e ho aspirato a bocca aperta il profumo di funghi che crescono tra gli abeti.
Ti ho fatto ruotare e ti ho preso l’altro braccio avendo il tuo viso davanti. Lo scenario era lo stesso, solo il cielo era azzurro nei tuoi occhi, che si misero a sbattere come sbattono le finestre dimenticate aperte in giornate di tumultuosi venti.
Ti ho preso entrambe le mani e ci siamo aperti come allodole gioiose. Come vele sospinte dal vento ci siamo gonfiati a un unico respiro verso climi selvaggi.
Ci siamo messi a dondolare di lato, sulle onde del mare del nostro sistema linfatico, che abbiamo sentito vibrare con impeto nelle nostre piante dei piedi, scosse dal dorso di delfini invisibili, che emettevano suoni di guarigione come felici e sorridenti sibili.
In controtendenza al suolo e al centro gravitazionale, ci siamo trovati a navigare sospesi nella schiuma delle nuvole, vapore acqueo salato riscaldato dal sole come una madre.
Se solo tu sapessi quello che vedo nei miei occhi chiusi, potresti trovare un paradiso, fatto di migrazioni di uccelli e di tramonti tra i rilievi.
Ecco, ora siamo la lancetta di una bussola e ruotiamo per trovare il punto cardinale, per non farci smarrire la strada sulla mulattiera di un crinale.
È ora di abbassare le braccia e di farle riposare. La tua bocca sfiora la mia, e questa volta è la testa a muoversi di lato per lasciare la possibilità al naso di non essere d’ingombro.
Non ti avevo mai vista con la testa appoggiata sulla spalla a far scendere sulla schiena i tuoi capelli, a lasciarmi il collo indifeso come lo lascerebbero le prede agli sciacalli.
Ti ho scelta per starmi accanto solo per sperimentare se la tua conformazione energetica potrebbe mischiarsi con la mia come l’acqua che viene assorbita dalla terra.
- Apri gli occhi…
- Aspetta…
- Di cosa hai bisogno?
- Non lo so… sei perfetta.

http://youtu.be/wfJVAoTE2PI

mercoledì 9 luglio 2014

Ero andato a una festa a casa di un amico

Ero andato a una festa a casa di un amico. Era esattamente il 1980 e io finivo le medie, malamente. Fino a quel giorno giocavo ancora con i soldatini, ma non alla guerra, io li usavo per giocare a calcio. Non vi sto a spiegare le regole, sta di fatto che 11 indiani si scontravano contro 11 cowboy sul pavimento del corridoio con due porte e un campo delimitato dalle piastrelle.
Ero andato a una festa a casa di un amico e c’erano tante femmine. Era una mansarda con alcuni divani e cuscini, e qualcuno fumava e beveva alcolici. Io ero puro tra catechismi e oratori vari, infatti l’unica cosa che conoscevo a memoria era la santa messa e le comunioni.
Ero andato a una festa a casa di un amico e c’era della buona musica io che ascoltavo Branduardi e Vecchioni. Per l’amor di dio brava gente, ottimi artisti. Ma quando si levò nell’aria i Pink Floyd con “Money” il mio corpo si mise a muoversi impazzito insieme al rumore delle monete, a rimarcare una certa povertà economica di allora che non è per nulla cambiata ora. Arrivarono anche i Rolling Stones con “sympathy for the devil” per cambiare religione, e poi Lucio Battisti, allora molto in voga, “con il nastro rosa”. A quei tempi il lento era il ballo migliore, dato che eri a contatto diretto con qualcosa che ti sembrava diverso da te, qualcosa di profumato e morbido che scatenava processi biologici fino a quel momento sconosciuti.
Ero andato a una festa a casa di un amico e aveva fatto i conti giusti. C’era lo stesso numero di femmine e di maschi, e quando partì il pezzo, tutti si erano ben sistemati a coppie. Rimanemmo io e lei a guardarci da divani differenti, gli altri ci sembravano più scafati e noi più deficienti.
Ero andato a una festa a casa di un amico e conobbi la figa e smisi di giocare ai soldatini e di andare a messa, ma soprattutto di confessarmi.
Ci osservammo qualche secondo tra la gente che ruotava nella stanza abbracciata e attaccata con tutta la faccia. Presi il cuore in mano e andai da lei con le gambe che tremavano e la gola secca dalla paura.
- Senti… - dissi.
Lei non mi fece neanche finire e mi portò ferocemente in pista e mi mise le braccia attorno al collo.
Si chiamava Stefania e credo che quello che mi stava accadendo fosse il vero paradiso terrestre, non quell’altro fasullo che mi avevano raccontato.
Mi appoggiò la testa sulla spalla e sentii il suo fiato sul collo. La sua bocca sarà stata a un millimetro dalla mia pelle. Sussultavo invece di ballare, il collo era umido dal vapore del suo respiro, mi voltai sul suo viso e bevvi il gusto delle sue labbra. Le lingue impazzirono e non ci staccammo per non so quante ore fino allo sfinimento delle nostre mandibole.
Ero andato a una festa a casa di un amico e imparai le mie prime strofe a memoria.
Chissà, chissà chi sei, chissà che sarai
chissà che sarà di noi
lo scopriremo solo vivendo
Comunque adesso ho un po' paura
ora che quest'avventura
sta diventando una storia vera
spero tanto tu sia sincera…
 

http://youtu.be/5L94LieZY60
 

lunedì 7 luglio 2014

I tuoi capelli


Era da almeno trent’anni che non vedevo una ragazza spostarsi la frangia dagli occhi soffiando con la bocca. È successo stamattina in fila alla cassa di un supermercato. Quel portare il labbro inferiore avanti e leggermente di lato, sparando aria sul ciuffo come una locomotiva a vapore, mi ha fatto sobbalzare e ricordare la prima ragazza che baciai su entrambe le labbra, in una gita su un treno, in viaggio verso la città del Rinascimento. Avrò avuto diciassette anni o giù di lì, ora non rammento. Lei era di un’altra classe, ci conoscevamo solo per qualche saluto. Eravamo seduti uno di fronte all’altra, e lei soffiava sovente questi capelli castano chiari che svolazzavano per tornare a infastidirle gli occhi e le tempie. Rimasi a guardarla fino al capoluogo ligure e verso levante, poi, quando vidi il mare che sbatté verso gli scogli, le misi le mani sulla fronte e le diedi un bacio impetuoso per non dare al mio cuore in gola il tempo necessario alla paura di frenare il mio slancio coraggioso.
- Che fai? – mi chiese con gli occhi belli.
- Niente. Ti tengo solo i capelli.

http://youtu.be/XmSdTa9kaiQ

domenica 6 luglio 2014

Dove siamo?


- Ma dove siamo, eh? Dove siamo?
Questa domanda balenava nella mia testa dai tempi della mia venuta. Sentirla chiedere da uno sconosciuto però aveva un suono diverso. Avrei dovuto dargli una risposta confortevole sapendo che non era confortevole per me. Potevo raccontare una storia zen per far colpo e impressionarlo, oppure dare la classica risposta dell’esistenza di un’entità superiore che governava tutto. Invece stetti zitto per un lungo tempo. Lui non si mosse, aveva quell’aria di sfida come per dire: “adesso vediamo cosa mi dici!”. A me non me ne fregava niente. Però, ebbi un sussulto, un reflusso mentale, qualcosa che stava eruttando come un vulcano da secoli spento. Gli presi con forza la testa, la girai verso di me, lo guardai fisso negli occhi. Il vulcano esplose, la mia lingua bruciò e dallo stomaco risalì la lava rossa che corrose l’esofago. Il mio corpo emanò fumo di zolfo e dai miei pori ci fu un’esplosione di vapore acqueo. Lui sentì il calore delle mie mani sul suo volto e rimase spaventato dall’attimo incandescente. Passarono dinosauri, draghi, uccelli giganti. Uscirono dal terreno sequoie, querce, fiori enormi e miliardi di farfalle di ogni colore. Venne il buio improvviso e poi la luce del sole, dietro a montagne che spuntavano altissime alle nostre spalle. Niente di più impressionante e dolcemente violento.
- Vuoi sapere dove siamo? – urlai col vento che ci soffiava prepotente sulle guance.
Lui fece solo un sì con la testa e un fiume d’acqua fresca ci attraversò il corpo.
Gli diedi un buffetto, mi avvicinai al suo orecchio e gli dissi:
- Ma che cazzo ne so!


giovedì 3 luglio 2014

Serata senza i mondiali di calcio



Era la classica serata di luglio senza partite dei mondiali. Aveva una certa malinconia nel non vedere in TV quei ragazzotti in mutande a correre dietro un pallone. Si annoiava e non aveva voglia di leggere un libro e neanche di vedere un film. Prese la pallina da tennis e la fece rimbalzare contro il muro rimanendo sdraiato sul divano. Questo movimento continuativo di lanciare con la mano la pallina gli ricordò un evento passato rimosso dalla coscienza in tempi non sospetti. Era il mille e novecento e qualcosa, in un mese freddo, sicuramente di domenica. Non aveva fino ad allora mai segnato un goal in gare ufficiali, gli unici li aveva fatti in allenamento e con le porte piccole, in quelle gare due contro due per fare fiato e spaccarsi i muscoli delle gambe. D’altronde lui era difensore di fascia e ogni tanto di marcatura, e quindi il suo lavoro era di fare in modo di non far segnare l’avversario. La cosa gli dispiaceva un po’. Vedere sempre la porta avversaria troppo lontana per i suoi gusti, non lo faceva sentire protagonista, anzi, gli sembrava che fosse dispendioso e inutile correre sempre dietro all’attaccante. Quindi, quel pomeriggio, decise di andare a saltare di testa in un calcio d’angolo, contro il parere dell’allenatore che gli urlò di tutto. Era la sua prima volta nell’area avversaria. Si accorse che quell’area era diversa dalla sua. Era più verde, più deliziosa e quasi quasi ci avrebbe fatto una grigliata. Invece nell’altra, quella dove difendeva, gli sembrava fosse arida come una trincea in tempi di guerra. No, no era decisamente più bella questa, questione di prospettiva, dato che la porta, a differenza dell’altra, non ce l’aveva dietro la schiena, ma davanti e tutta sua. L’unica cosa che non gli piaceva era il rompicoglioni che lo marcava e lo tratteneva, fastidioso come una scimmietta che ti sta sulle zone d’ombra, naturalmente imitava lui quando stava nell’altra area, quella della trincea. Comunque, andò sul secondo palo, facendo la finta di andare nel primo, a lui non la si faceva, perché era scaltro come una mangusta. Sgattaiolò dalla scimmietta e si trovò solo come un cane. La palla però arrivò in zona centrale e un energumeno, suo compagno di squadra, saltò più in alto di tutti e la colpì con un potenza impressionante. Lui lo guardò come si guarda Superman. La palla andò a stamparsi sulla traversa e rimbalzò sulla linea di porta e gli andò incontro leggera sui suoi piedi, a un metro dalla porta. Non ci poteva credere, cazzo! La palla era lì, facile, ed era venuta da lui come per dire: “dai tira, fai sto cazzo di goal”. Era così eccitato che invece di spingerla dolcemente in porta, mise tutta la potenza che aveva nella gamba e tirò al volo una carocchia che prese il palo in pieno e gli cadde sulla faccia fratturandogli il naso. Svenne immediatamente e poi seppe, alcune ore dopo in ospedale, quando si riprese, che aveva comunque segnato. E vinsero. Era il suo primo goal e non lo vide neppure.
- La finisci di rompere il cazzo con sta pallina? Devo venire a ficcartela…
- Ok! Ho finito.
Certo che neanche una partita stasera…


Angelo



Il sole era già caldo nella luce del pomeriggio di luglio. I pensieri andavano e venivano lentamente. Il caffè catturò il profumo dell’aria e la casa ventilava di proiezioni future. Sapere come fosse possibile sbloccare gli ostacoli, era la visione predominante di chi girava col cucchiaino lo zucchero nella tazzina e si accendeva un’anonima sigaretta. Forse tutto era all’interno di parole dette a casaccio, senza alcun senso, o forse era il silenzio di una casa dove qualche fantasma gli stava urlando l’alchimia necessaria. Ma come si ascolta un angelo che ti urla sulla faccia? Finì il caffè a piccoli sorsi e anche la sigaretta a piccole tirate. Accese della buona musica dallo stereo e si mise a leggere un libro sconosciuto.
- Mi senti? – chiese l’angelo invisibile.
- No!
- Perché?
- Perché ce la faccio da solo!





martedì 1 luglio 2014

Tracce


Si persero le tracce. Camminava sospeso a un centimetro da terra.
Si persero le tracce. Camminava anche al contrario con i piedi rivolti al cielo.
Si persero le tracce. Perché volava di traverso.
Le sue impronte erano visibili solo da occhi indiscreti.
Si persero le tracce come si perde la ragione.
Si persero le tracce come si suole dire.
Era sparuto e per certi versi sparito per il suo aspetto emaciato per non dire pallido come la luna bianca in una notte nera come il carbone spento.
Si persero le tracce e non c’era nessuno che avesse verificato attentamente i suoi eventuali passi da gigante o quelli più lunghi della gamba.
Niente orme. Nessuna erba calpestata o contorni di fango lasciati dopo il diluvio imprevisto.
Si persero le tracce e fece le domande.
- A chi vuoi bene, enigmatico uomo, di’? A tuo padre, a tua madre, a tua sorella o a tuo fratello?
- Non ho né padre, né madre, né sorella, né fratello.
- Ai tuoi amici?
- Adoperate una parola di cui fino a oggi ho ignorato il senso.
- Alla tua patria?
- Non so sotto che latitudine è posta.
- Alla bellezza?
- L’amerei volentieri, dea e immortale.
- All’oro?
- Lo odio come voi odiate Dio.
- Eh! Ma allora cosa ami, straordinario straniero?
- Amo le nuvole… le nuvole che vanno… laggiù… laggiù… le meravigliose nuvole!
(Dialogo finale da un poemetto in prosa de”Lo spleen di Parigi” di Charles Baudelaire)