domenica 25 novembre 2018

Gioia

Ciao, mi chiamo Gioia. Quando avevo 19 anni ero una gran bella figa - tanto per usare il vostro gergo maschile. Ero un po’ ribelle, anche un po' zoccola - tanto per usare ancora il vostro gergo maschile - e non andavo molto d’accordo con mia madre, come ogni ragazza che si rispetti a quell’età. Una sera un ragazzo mi mise qualcosa nel bicchiere e mi violentò dandomi della troia - tanto per... Mi mise anche incinta e andai ad abortire.
Il giorno dopo ero pazza. Divenni completamente pazza. Vedevo e sentivo sempre il diavolo e non c’era modo di mandarlo via. Tentai il suicidio almeno 4 volte e le prime tre mi salvò il mio fratellino. Lui era un giocatore di pallone, pensava solo a quello, viveva solo per quello, però quelle tre volte lo trovai accanto silenzioso a tamponare le mie vene sanguinanti delle braccia, a bloccarmi mentre stavo per gettarmi dal balcone e a chiamare l’ambulanza quando mandai giù una trentina di pastiglie. Era un giocatore di pallone e credo se la cavasse bene, un marcatore. Ma quando lo feci per l’ultima volta, lui non c’era, quando lo feci per l’ultima volta, mi gettai nel fiume: volevo proprio vedere se il calciatore di pallone era così bravo a venirmi a tirare fuori di lì, anche perché non sapeva nuotare. Lo fece un altro, uno che non so chi fosse, ma quando lo vidi in faccia appena portata a riva, assomigliava a lui, credetemi, a quel ragazzo che mi violentò, aveva gli stessi tratti somatici, mi venne da ridere e gli dissi:”Ma brutta testa di cazzo, non potevi regalarmi un mazzo di tulipani?”
Sono Gioia. Vivo in una comunità di recupero per malati psichiatrici. Vorrei vivere nel vostro mondo ma non ci riesco. È che il vostro mondo è pieno di giudizi, di rabbia, di cose importanti da fare. Tutti insegnanti, tutti capaci, tutti così professionali. Qui la vita è più semplice, posso fare la matta e nessuno ha qualcosa da dire, anzi molto spesso ci si ride sopra. È vero devo prendere medicine ogni giorno per non vedere e sentire il diavolo, ma che ci volete fare se io lo vedo, lo sento, e voi no? Quel pazzo di mio fratello, che ora non gioca più a pallone, mi dice sempre che dovrei farci due parole a quattr’occhi giusto per capire cosa cazzo vuole! Sì, forse un giorno lo farò o forse no.
Sono Gioia, adesso vi chiedo di farmi una domanda…
- Quale?
- Chiedimi se sono felice?
- Sei felice?
- E tu, lo sei?

venerdì 26 ottobre 2018

Mi sembra di non averlo

Sua madre diceva di lui:
- Mi sembra di non averlo.
Infatti era un bambino che non
disturbava, che non faceva rumore, un bambino a modo. A volte si sentiva come un ascensore vuoto che va su e giù e apre le porte a nessuno, in attesa che arrivi qualcuno a toccare i tasti giusti, dal primo all'ultimo piano. Diventato adulto provò a farsi largo, a farsi notare, ma spesso erano fuochi di paglia, piccoli attimi di protagonismo, solo per creare veloci attenzioni, come quando la gente per strada si gira all'unisono verso un rumore, per poi accorgersi che non è successo niente di strano. Viveva in un piccolo borgo nel centro storico. Teneva sempre le persiane chiuse anche d'estate. La gente che incontrava per strada non lo salutava, e perché mai avrebbe dovuto farlo. Faceva sempre la stessa strada per andare al lavoro, ed entrava nello stesso supermarket per fare la spesa. La cosa singolare era che nessuno si accorgeva di lui, erano tutti così indaffarati che uno più o uno meno intorno non faceva differenza. A lui piaceva molto questa sua capacità di essere invisibile e ne approfittava ogni volta che incrociava uno sguardo curioso spostando i suoi occhi altrove, costringendo la persona che si era accorta di lui a cambiare direzione. Si convinse col tempo che aveva ragione sua madre: lui non c'era, e la cosa non gli dispiaceva. Un giorno, però, trovò un fogliettino nella buca delle lettere, c'era scritto in stampatello: TI OSSERVO TUTTI I GIORNI COL BINOCOLO. Si guardò intorno e poi verso l'alto, in direzione dei tetti, e si sentì nudo. I giorni a seguire diventò nervoso, diffidente, iniziò a guardare negli occhi della gente. Vide i loro atteggiamenti, i loro finti sorrisi, le loro abitudini. Quel messaggio lo catapultò improvvisamente nel mondo circostante: un ascensore che conteneva più gente del dovuto. Tutti a toccare i suoi tasti, a fargli male, a fargli solletico, a dargli fastidio. Su e giù, su e giù, le sue porte che si aprivano ed entravano e uscivano in continuazione estranei al suo interno. Credeva di impazzire, nessun blackout, nessun allarme. Si chiuse in casa e si mise a dormire. In piena notte si svegliò di soprassalto convinto di aver sentito il campanello e corse alla porta, ma non c'era nessuno, probabilmente se l'era sognato. La mattina seguente trovò un altro bigliettino nella buca delle lettere con su scritto bene in stampatello: STAVO SCHERZANDO. Si sentì immediatamente meglio e tornò a essere invisibile, felicemente assente. Passarono gli anni e lui invecchiò come tutti gli esseri umani. Da buon pensionato camminava lento nel solito supermarket e continuava a passare inosservato. Pochi giorni prima che morisse, ma questo lui ancora non lo sapeva, e come avrebbe potuto saperlo, mentre girava la chiave per aprire il cancello, si avvicinò un bambino che gli tirò il cappotto:
- Mi scusi, è vero che lei è famoso?
- E chi te lo ha detto?
Indicando col dito.
- Quella vecchietta col binocolo che vive sul tetto.

Aisha

Erano seduti come se stessero attendendo il futuro prossimo, il suono preciso dell'autunno che soffia sulle foglie labili, greggi spirituali di campanelle vibranti, faticosamente ancora appese sui rami invecchiati al sole d'estate. Matt e Robin stavano lì a respirare un fresco venticello, nato dall'incrocio di refoli d'aria disordinati, giunti in orario dalle montagne e dall'oceano come treni merci senza destinazione, senza stazioni, senza luoghi attesi, un misto di dolce e salato. Matt era un ragazzo particolare, Robin era un signore più particolare di Matt.
- Senti, Robin, ti devo parlare di una ragazza.
- Come si chiama?
- Aisha.
Aisha era partita dall'Italia per Boston mesi prima, per fare una foto proprio a quella panchina dove stavano seduti sopra Matt e Robin.
- Ne conosci il motivo? - chiese Robin.
- No, però conosco la storia di Aisha.
Aisha nacque in una zona sperduta di montagna, sulle Alpi Graie, due o tre decadi fa. Quando venne al mondo non pianse, Aisha incredibilmente rise di brutto. Non faceva altro che ridere anche quando era l'ora della poppata, spruzzava latte materno in ogni dove, rischiando di rimanere soffocata. Sua madre, maestra elementare che adorava i libri di Edgar Allan Poe, non sapeva come farla smettere, soprattutto di notte, quando teneva svegli anche il gallo, il cane, i conigli, le capre e i due leocorni. Era una neonata che si spanciava dalle risate. Perché ridesse nessuno lo sapeva, a parte, forse, i due leocorni che sogghignavano sornioni in disparte. Qualche mese dopo, sua madre, mentre leggeva "Quattro bestie in una", la prese in braccio e provò a farle dire qualcosa.
- Aisha, guardami. Prova a dire ma... ma... mam... ma...
- Ma... ma... ma... Massachusetts.

- Matt, va da lei e falla piangere.
- Dove sono le Alpi Graie?
- Da quella parte.
- Grazie Robin.
- Di nulla Matt...
Matt si alzò, si mise l'indice in bocca, poi, ascoltò col dito umido la direzione del vento, e si allontanò come un cow boy appena sceso da cavallo.
- Matt? - urlò Robin.
- Dimmi...
- Come cazzo si scrive Massachusetts?
- Non lo so... nessuno lo sa a Boston.
All'improvviso, da nuvole di treni a vapore giunti in orario, destinazione lago di Michigan, caddero lacrime di gioia sul Mystic River di Boston capitale del Massachusetts.

Ibiza

Alla fine degli anni ottanta quando ero un neopatentato, ogni volta che si invitava una donzella a uscire, la si portava in cremeria, luogo di tradizione, anche perché la cena era ancora troppo impegnativa per un ragazzotto sui vent’anni come me. Di solito ci si trovava tutti lì a coppie, a strafogarsi di affogati. Io prendevo sempre quello al whisky per dare un colpo salutare alla mia timidezza. La cosa interessante di quel periodo era, che noi maschietti, giravamo con lo stereo in mano, dato che i cellulari non erano ancora stati inventati e i ladri pullulavano nascosti nelle siepi dei parcheggi. Quindi, si andava in giro con queste autoradio pesanti almeno 4 kg – i più fortunati avevano il manico, io no. Chi possedeva un “pioneer” era un figo, chi possedeva un “Kenwood” era anche lui un figo, ma un po’ meno, io avevo un “Grundig” di seconda mano, già vintage in quel periodo. Ora immaginatevi una cremeria piena zeppa di autoradio sul tavolo e di coppiette che succhiano dalla cannuccia affogati di ogni gusto. Si parlava di oroscopi:
- Di che segno sei?
- Sagittario!
- Oh, no, troppo libertino, però meglio del capricorno.
E altri argomenti, come la propria squadra del cuore:
- Non mi dire che sei della Juve!
- Sì.
- Noooo!
Oppure, se Tom Cruise è meglio di Richard Gere, quando per noi maschi Claudia Schiffer le batteva tutte – a parte Edwige Fenech che non nominavamo per pudore.
Dopo aver pagato il conto – pagavamo sempre noi maschietti – ci si infilava in macchina e si inseriva lo stereo con una certa delicatezza, quasi a far notare a lei, facendo l’occhiolino, la cura che mettevamo a infilare questo marchingegno, come per dire:
- Vedi come sono bravo!
In quel periodo la mia cassetta in voga erano i Talking Heads, anche se non disdegnavo i Pink Floyd: musica troppo impegnativa, però a me piaceva. Sta di fatto che una sera, quella splendida giovinotta che mi stava accanto, chiese Sandy Marton, sbottonandosi la camicetta.  L’unica cosa che accumunava me e Sandy e pure la tizia, erano i capelli lunghi (sì, ci fu un periodo che mi pettinavo). Ebbi un sussulto, non volevo che la mia autoradio, ma soprattutto i miei woofer, potessero essere violentati da quel tizio che voleva andare ad Ibiza, ma lei mi persuase, tirando fuori la sua cassetta da discoteca, pregandomi di sostituirla, con tutta la sua capacità di seduzione, mettendo la bocca a forma di culo di gallina. La osservai con lo sguardo alla Terence Hill, un po’ Trinità e un po’ Don Matteo, giusto per mettere insieme il Selvaggio con il Rispettoso. Schiacciai la leva di espulsione e David Byrne si ritrovò nel sedile posteriore. Infilai la cassetta, misi in moto la macchina e ci dirigemmo verso il campo sportivo, luogo dove di giorno c’erano squadre che prendevano a calci una palla e di notte c’erano squadre che si prendevano e basta. Durante il tragitto con una mano guidavo, con l’altra stavo sul rewind cercando “People from Ibiza” e con la lingua limonavo duro avendo gli occhi sulla scollatura, tanto la macchina conosceva la strada. Arrivato a destinazione e parcheggiato tra una Ritmo e una Duna, ecco che partì il pezzo delirante e mi trovai tra le mani le montagne del Gran Paradiso sognando di andare nella calda Ibiza che stava a una quarantina di centimetri sotto.

Molly

Mentre Molly, con la sua delicata prudente mano - una clessidra del tempo - gli accarezzava i suoi capelli neri, con l'intenzione di trasformarli in sabbia, lui stava sdraiato confuso sul divano, a leggere complicate pagine disordinate di un libro di Cortazar.
- Perché leggi sempre cose che non capisci?
- Per far passare il tempo.
Gli tirò appena i capelli e poi se li fece scivolare tra le dita.
- Un giorno mi cadranno tutti, di colpo - le disse, voltandosi, sorridendo con i suoi denti storti. Lei fece un sospiro e lui riprese a leggere.
Era già tardi, la luna fuori era invadente, troppo grande per svegliare erotiche maree. Molly decise di fare un caffè e di mettere su un vinile.
- Paul, ti piace...
- Sì.
Un fruscio e un gorgoglio, e la stanza si riempì di musica e di moka.
Bevvero il caffè bollente con due cucchiaini di zucchero di canna, si accesero la sigaretta e aprirono la finestra. Una nuvola avvolse la luna.
- Domani piove, Molly.
Guardarono sotto, la strada era deserta. Lanciarono le cicche. Volarono via come due fuochi artificiali appena esplosi, due vite andate in fumo che si spegnevano sull'asfalto.
- Non ti amo più, Paul.
- Neanch'io, Molly.
Molly si allontanò nel medesimo istante, durante il quale, la nuvola grigia che avvolgeva la luna, si sfaldò, come vapore acqueo, lucidandola di un argento vivo, che non bastava tutto l'oro del mondo per quanto fosse preziosa in quel momento.
- Io vado a fare un bagno.
Lei si fece scivolare, lungo il suo corpo, il suo aderente vestito e si avviò nuda verso il corridoio. Paul la osservò come faceva sempre, con quello sguardo spento ma con il cuore pulsante nelle pupille da farlo lacrimare, e si chiese quale fosse il motivo vero, per quell'intenso, potente, vivo desiderio che aveva verso quella enigmatica crudele creatura, che giocava con attenta passione ad essere piacevolmente insensibile.
- Non farmi aspettare.

venerdì 27 aprile 2018

Però era bella, bella davvero.

Trascorreva le notti a rimuginare mancate intenzioni. La sua mente era un giudice di un processo continuo di primo grado e la sentenza non lasciava dubbi sulla sua scarsa e trascurata innocenza. Non aveva alibi, sapeva condannarsi così bene che si accollava anche le colpe degli altri: come una spugna, come una calamita, come la malattia. Però era bella, bella davvero. I suoi occhi rutilanti lucidavano lontani pianeti roventi, le sue labbra mobili strisciavano come serpenti su... ghiacciai innevati da sbattere i denti e i suoi capelli erano liane elettriche penzolanti, di giungle metropolitane deserte, formatesi appena dopo l'estinzione di ogni essere vivente. Però era bella, bella davvero.
Una notte squillò il cellulare. Era notte fonda, più buia della foresta. Io me ne stavo in un sogno devastante aggrappato a un grattacielo di schiena, su di una colonna vertebrale femminile a scala chiocciola. I gradini erano stretti, salivo a malapena in punta dei piedi. Al suono improvviso caddi all'indietro sbattendo la testa sul cuscino.
- Pronto...
La sua voce ringhiava dolcemente. Il suo fiato mi fece resuscitare.
- Stavi dormendo?
- Chi sei?
- Non prendo mai sonno.
Però era bella, bella davvero.
- Adesso ti racconto una storia.
- Fallo, ti prego.
- C'era una volta una bella ragazza, bella davvero. Era sveglia, talmente sveglia che non dormiva mai. Poi, un giorno arrivò un ragazzo che la baciò sulle labbra. Lei semplicemente chiuse gli occhi e dopo molti anni, finalmente, si mise a dormire di un sonno profondo, così profondo, che il ragazzo stupito, decise di baciarla ancora e ancora. Ogni bacio era un sogno, ogni sogno era una reincarnazione. A lei spuntò un sorriso... pronto... pronto... pronto?
Però era bella, bella davvero.



domenica 18 marzo 2018

Se dovessi amarti


Se dovessi amarti mi spoglierei della devozione eccessiva, mi leverei la superflua pignoleria addosso e mi sfilerei la mia inutile scrupolosità dalla schiena. Poi, depositerei il mio tatto in un baule di un’auto rubata, parcheggiata nella piazza del mercato, pronta a partire inseguita dal disordine costituito. Infilerei una maschera di ghiaccio contro i bollenti spiriti, accenderei mozziconi raccolti per strada per assaporare il gusto amaro degli ipocriti e osserverei la lenta grigia anima salire tra le nuvole a pecorelle. Darei un appuntamento al cuore a un incrocio, mi nasconderei dietro a un angolo, per vederlo guardarsi intorno, a battere come una prostituta a ridosso del semaforo. Se dovessi amarti andrei a cantagliene quattro sbattendo i pugni sul muro.
Quando ti dissi queste parole, la pioggia ci cadeva sulle guance, a stento riuscivamo a tenere aperte le palpebre. Quante volte abbiamo provato invano ad asciugarci il viso con le mani umide.
- Piove sul bagnato…
Iniziammo a ridere a crepapelle nel piagnisteo circostante, su quell’isola di cemento a costruirci una zattera, per timore che tutto sarebbe invecchiato col bel tempo e che il sole avrebbe asciugato i nostri eccetera eccetera.
Se dovessi amarti proteggerei, per quanto mi sia possibile, ogni incantevole e benedetta pozzanghera.



giovedì 22 febbraio 2018

Febbraio

Era una sera di febbraio, e febbraio è un mese di poche parole, è un sms, è un appuntamento veloce, un cappotto corto, una gonna a tubo, una maglia a girocollo. Febbraio è due piccoli seni, le caviglie magre, la frangia negli occhi, la pelle bianca sulle guance. Febbraio è un paradosso, febbraio ti stava appiccicato addosso. Potevi togliere o aggiungere giorni, potevi tornare o andartene, potevi fare un po' come cazzo ti pare. Ti ricordi, era un anno bisestile, e quel giorno,... era un giorno in più, come te, che sei sempre stata in più, in diverse occasioni. Eri in più quando mancava qualcosa, eri in più quando non c'era posto, eri in più a ogni costo. Febbraio è come stare al cinema e uscire prima, prima che finisca, è come scopare con qualche indumento addosso, è il fremito, è la foga nello spingere, nel restare aggrappato, a bocca aperta, con la lingua di fuori, con la voglia di scappare, e farsi del male per stare bene... febbraio non dovrebbe mai finire.
Era una sera... poi, nella notte, venne un mese pieno, un mese intero.

L'immagine può contenere: pianta, albero, scarpe, spazio all'aperto e natura

giovedì 4 gennaio 2018

Vuoto d'aria

Avevano corrotto i loro sogni con l’abitudine, il quieto vivere. Seguivano costantemente come formiche impazzite il flusso della gente, per raccogliere dai visi sconosciuti, briciole di verità presunte. La via era colma, i pacchetti erano stati confezionati bene. Migliaia di fiocchi passavano orizzontali, e non era la neve.
“Natale è alle porte”, si sentiva per le strade.
- Natale mi mette tristezza. Ecco questo è per te?
- Che cos’è?
- Un pensiero. ...
Lui lo aprì e ci trovò un cavatappi di un certo livello. Erano in piedi sotto i portici, al freddo. Entrambi soffiavano fiato caldo sulle mani. Un gesto che solitamente fanno tutti.
- E il pensiero dov’è?
Tirò fuori dalla borsa una bottiglia di vino.
- Così va meglio.
E l’aprì.
- Allora parti?
- Sì, la vigilia.
- Quando torni?
Bevvero in silenzio senza bicchieri. Prima d’ogni sorso ci mettevano dentro le narici.
- Anch’io ho qualcosa per te!
- Cosa?
- Un pensiero.
Lei tentò di aprirlo ma il fiocco s’intrecciò. Il nodo si strinse così tanto che neanche a morderlo si sarebbe sciolto. Non voleva rompere la carta fatta di campanelle e di stelle comete.
- Hai qualcosa per…
Si sentì nervosa.
Lui cercò nelle tasche.
- Senti…
Lei decise di strapparla con furia felina, quel nodo l’aveva soffocata. La sbriciolò con le unghie come se avesse avuto l’orticaria. Ogni pezzettino un senso di colpa.
Un ghigno spaventoso si stampò sulla faccia.
La scatola era vuota.
- Quindi?
Lui guardò a terra i frammenti sparsi.
- Sarei vuota?
- Era la carta il regalo.
Il ghigno divenne tremolante e la mandibola prese a vibrare dal freddo.
- All’interno avevo scritto una storia.
Si accorse delle parole che aveva fatto a pezzi. Avrebbe voluto diventare una formica.
- Non sono brava con i puzzle.
- Non potevi saperlo.
- Fai sempre dei regali di merda, lo sai?
Continuarono a bere vino, poi si salutarono. Lui se n’è andò via con il cavatappi e la bottiglia finita, lei con la scatola vuota.
La storia venne calpestata dalla folla.
- Si allacci le cinture, stiamo decollando.
- Certo.
- Vuole che le metta la scatola nel portabagagli.
- No, no, grazie.
Quando l’aereo prese a virare, un vuoto d'aria le arrivò nello stomaco.

Lei riaprì la scatola.
Non c’era niente di niente.
Solo una scritta sul coperchio.
Just do it.