martedì 29 novembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (14)

Apro gli occhi. Solange.
- Chiudi gli occhi.
Apro gli occhi. Solange.
- Chiudi gli occhi.
Apro gli occhi. Solange.
- Chiudi gli occhi.
Proprio tutta un’altra storia, un altro mondo, un tempo indefinito, diventare irriconoscibile senza lo specchio, conservare una smorfia di dolore, avere un disperato bisogno di una platea, formidabile la struttura, poche e semplici mosse, tutto appare placido, pacifico, pure troppo pacifico, mi è impossibile liberarmi dalle emozioni, incapace di abbandonarmi interamente, la guardo quasi commosso sotto quell’esclusivo profilo, le chiacchiere stanno a zero, non c’è nessuna guerra, nessuno sparo, mi ricordo il punto esatto. Sono vivo.
Apro gli occhi. Solange.
- Chiudi gli occhi.
Apro gli occhi. Solange.
- Chiudi gli occhi.
Apro gli occhi. Solange.
- Chiudi gli occhi.
La vita è vasta, è come risvegliarsi ogni volta, siamo scollegati dalla creazione, abbiamo perso l’origine, i risultati arriveranno, se dovesse esserci un secondo passo che delimita la visuale, sto facendo la cosa giusta nel comprendere questo spazio, ci siamo incontrati in passato dove il cuore era pronto.
Apro gli occhi. Solange.
- Chiudi gli occhi.
Apro gli occhi. Solange.
- Chiudi gli occhi.
Apro gli occhi. Solange.
- Chiudi gli occhi.
In ciò che ci separa la luce che c’è oggi, per questo che esistono gli occhi, nulla del miracolo potrebbe essere ricordo, per questo tu e io apriamo l’alba e il crepuscolo, forza amante, giunge la gioia, bacio dopo bacio, salvo ormai dal mondo, nella vita più cara, gli uccelli che cantano, dolore di grandezze, vale soltanto vivere. Accompagniamo le nostre anime.
Apro gli occhi. Gli occhi aperti.
Suoni di clacson. Scendo dal letto. Un dolore alla spalla sinistra, vado verso la finestra. Traffico.
- Hola, Hombre!
Mi volto, una donna che non conosco.
- Dónde está Solange?
- No sé Solange!
- Dónde está? Dónde está? Dónde está? Dónde está?
- La Paz.
- No, la pace. Solange!
- Hombre, esta noche, tù eras un libro abierto.
- Sono solo pagine a caso.
continua...



sabato 26 novembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (13)

- Hey, aspetta!!!
Le urlo correndo col cuore in gola. La gioia mi pervade sul petto, i miei occhi luccicano come nuvole di vapore, la mia pelle addrizza i peli come l’erba che cresce tra le insenature dell’asfalto, le mie cartilagini corde di violino, le mie ossa un grande contrabbasso, qualcuno suona con l’archetto. Le vado incontro scivolando sul terreno ripido. Ho cambiato sentiero. Tra me e lei venti metri. Ora è lo spazio che cancella il tempo, la distanza una musica soave, diciannove metri e mi accorgo del lago, diciotto metri e mi accorgo del cielo, diciassette metri e respiro, sedici metri e sorrido, quindici metri e ho paura, quattordici metri e tremo, tredici metri e magari mi fermo, dodici metri e lei non si gira, undici metri e i suoi capelli neri, dieci metri e manca poco, nove metri lei sente i miei passi, otto metri e prendo il foulard dalla tasca, sette metri e sento il suo primo strato di coscienza, sei metri e ci sono dentro, cinque metri e ho un leggero capogiro, quattro metri e lei si gira, tre metri e vorrei cadere a terra, due metri e lei mi spara.  
- Come ti chiami?
- Solange.
Le mie gambe sono molli, il foulard cade lentamente, non c’è un filo di vento, la sua pistola fuma l’ultima sigaretta e arriva la nebbia a catturare il sole.

continua...


mercoledì 23 novembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (12)

Il sistema binario ha due simboli: 0 e 1. Assenza di tensione, presenza di tensione. Nulla e tutto. La memoria chiusa in gabbia, la velocità delle sinapsi, l’elaborazione della realtà. Conflitto e guarigione. Gioia e dolore. Zero è il matto, l’uno è il mago. Follia e magia. Potrei andare avanti così, ma cammino a fianco del treno che deve ancora passare a dividere il bene dal male. La verità è che non so cosa sia un sistema binario. Non so cosa sia un sistema. Penso al verbo, ai giochi sparsi sul pavimento e a mia madre. Entro nella folta vegetazione del Machu Picchu, avanzo con passo regolare, respiro l’odore misterioso del luogo, in questa retta via del binario di un treno che non è ancora passato. Il presente è il mio movimento, l’universo è parallelo. Per assurdo questo viaggio assomiglia a un viaggio di lavoro. Scavo l’aria, la sposto, produco vento alle mie spalle dove qualcuno scatta una foto. Mi giro e non c’è nessuno. Ci devi pensare due volte quando sei chiuso nel binario vuoto! L’equilibrista sta sempre sulla rotaia ad aspettare il treno per scendere e non farsi investire. Passare dall’altra parte, cambiare idea, considerare la vulnerabilità per contrastare la coerenza. Mi emoziono per nulla, basta una scossa elettrica partita da chissà dove, alimentata da un interruttore presente nel mio sistema cerebrale. Sistema le tue cose, diceva mia madre. Fare ordine, mettere in disordine. Spargere vecchi ricordi come sfogliare vecchi diari di scuola al cui interno venivano scritte note da far firmare ai genitori. Il ragazzo non si applica, è un chiacchierone e non ha portato la ricerca per ben 4 volte. Gliela porto adesso maestra? A stento sufficiente, quasi sufficiente, appena sufficiente. Giudizi. Mai discreto perché non lo sono mai stato e non lo sono neanche adesso. Buono e ottimo lo abbino solo al cibo, distinto lo divido con l’apostrofo. Bastava un sei per essere, un sufficiente per galleggiare. Ora sono libero di salutare tutta la brava gente. Non so cosa sia un sistema binario, il treno sta arrivando. Mi passa accanto lento. Guardo le facce appoggiate ai finestrini, assomigliano a tutti i miei insegnanti. Non ho più bisogno di maestri.
- Hola chico!
La voce vibra e mi attraversa la pelle, smonta il binario e mi scaraventa nel sistema infinito. È lei che mi ha deragliato, la ragazza vestita di gelsomini mi sventola un foulard d’innumerevoli colori verdi. Inizio a correre per provare a salire dall’ultima carrozza, ma il treno è più veloce e io sono a stento sufficiente. Mi lascio cadere a terra, mi lascio andare alla speranza, e il foulard di foglie verdi si posa sulla mia faccia.

continua...

domenica 20 novembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (11)


Come sia arrivato a Cuzco è un mistero. Essere nella plaza de armas è uno scherzo del destino. Credo di avere perso tempo tra il Machu Picchu e il lago Titicaca a respirare aria rarefatta di civiltà antica. Camminando alla ricerca di quella meravigliosa ragazza ho cancellato ogni traccia. A queste altezze si ha l’impressione di non esistere. Una bella sensazione la non esistenza. Ora sono seduto su di una panchina, risvegliato da un vecchio inca che mi sta seduto accanto. Assomigliamo a due campanili che segnano ore diverse sulle nostre facce, quadranti di orologi aperti come cipolle. La panchina è la chiesa. La vita intorno una santa messa.
- Da dove vieni, ragazzo?
- Dall’altra parte del mondo.
- Cosa cerchi?
Prendo la moneta che ho in tasca e gliela porgo.
- Questo.
Lui la osserva sulla sua mano ruvida che ha solo linee della vita.
- Un nuevo sol?
- Sì.
Me la restituisce e io la rimetto in tasca.
- Come ti svegli al mattino?
- Scusi?
- Sei come tutti. Al mattino vi svegliate rassegnati.
- Io mi sveglio perché ho un obbiettivo.
- E quale sarebbe?
- Portare a termine.
Il vecchio sorride e si tocca la faccia spostando le lancette. Il suono della campane toglie le parole. In questo silenzio di salvezza tra un din e un don, risale la nostra anima, su gradoni di una piramide, architettura complessa e perfetta della sommità di Dio, che si esprime nella sua interezza, quando il sole giunge con la sua luce a riprendersi il mattino. Stare in cima non basta.
- Senti, ragazzo, lo senti?
- Sì.
- Il tempo è un’illusione, le parole sono merce. Ogni parola è complessa, per qualcuno potrebbe essere salvezza, per qualcun altro la morte. Immagina poi una frase, quante emozioni vanno a condizionare il nostro cuore, ora pensa a pagine e pagine di innumerevoli parole che spostano le nostre frequenze. Vedi, ogni parola è una sentenza o una liberazione. Ogni frase la condanna o la verità. Ogni libro la galera o la vita intera.
- Non capisco.
- Non salvare chi non vuole essere salvato. Non prenderti mai questo potere assoluto, neanche con te stesso. Sei solo un uomo, una cellula dell’universo.
Il vecchio si alza e mi saluta. Mi sale una rabbia incomprensibile. Le sue parole hanno toccato corde tese del mio sistema nervoso, i tendini si sono messi a suonare un certo disordine, e i muscoli si sono contratti in assenza di flusso sanguigno bloccato dai linfonodi che si sono messi di traverso. Tiro fuori la pistola e gliela punto alla schiena, è arrivato il momento di demolire la diga.
- Sei tu quello che sto cercando?
- Io sono solo l’inizio.
continua...



martedì 15 novembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (10)


Ti ho cercata tra le formiche nelle cortecce di tronchi d’alberi maestri, svenuti silenziosamente nella foresta, i quali ostacolavano sentieri poco battuti, per impedire di essere asfaltati. Mi sei salita sulla mano tra le linee ramificate del palmo e le escoriazioni causate dai rovi. Ci hai girato intorno, facendo finta di niente, e ti sei infilata nel tunnel della manica a seguire il tracciato irregolare di una vena appariscente. Sei salita sostenendo una briciola di speranza, e ti ho perduta tra il gomito e la schiena. Potevo ucciderti!
Ti ho cercata alzando lo sguardo verso l’alto, tra sciami di api che entravano e uscivano da arnie appese ai rami di salici piangenti di miele. Le gocce erano lacrime dolci che scendevano sulle mie gote, trampolini di lancio per il mio labbro inferiore, un bordo morbido sul dirupo dell’amore. Le mie papille gustative riconoscevano il tuo gusto mentre mi ronzavi nelle orecchie. Le tue frequenze vibravano tra i lobi e le meningi, ed io ho chiuso gli occhi per paura di vederti. Tu eri la regina e mi puntavi il pungiglione come una spada.
In guardia! Potevi ucciderti!
Ti ho cercata negli stagni tra gli innumerevoli girini che sarebbero diventati rane gracidanti con quel sottomento che si gonfia al ritmo di un cuore aperto estratto dallo sterno da un abile chirurgo. Oppure un rospo in attesa di essere baciato dalla fortuna di trasformarsi in un principe per svegliare una bella addormentata nel bosco. Ma quei girini sarebbero diventati coccodrilli, svelti e affamati, pronti per azzannare qualsiasi cosa che si fosse mossa. L’istinto primordiale del cervello antico, attaccare per non diventare una borsa.
Potevi uccidermi!
Ti ho cercata tra le lumache chiuse in casa e quelle fuori che erano esche per pesci pronti ad abboccare o larve in procinto a diventare farfalle. Si vive poco a volare colorate o ad annegare appesi a un filo, meglio ognuno chiuso, nel suo guscio, a rotolare quando il vento ce lo concede o un serpente che ci dà una spinta mentre striscia tra le cortecce dove c’erano prima le formiche. Sono seduto qua sul tronco dell’albero maestro. Ho raccolto le ragnatele con la faccia e con tutto il resto, se non mi dici dove nascondi ciò che coltivi, potrei uccidere questo serpente sospettoso, che non ha ancora deciso se mordermi o stringermi, perché, in realtà, non sa di essere velenoso.
continua...



domenica 13 novembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (9)

- Sentite, io non c’entro un cazzo! Non so nulla del denaro e della coca.
- No entiendo!
- Credetemi. Io non so neanche che ci faccio qui. Sono partito per trovare un tizio. È possibile che mi trovi sempre nella merda con gente che tiene un’arma in mano, capite? Credo di essere in due tempi diversi… due ore diverse.
- Hey, amigo, estàs loco!
- Non sono pazzo. Io non sono in questo istante!
- Esto se hace de la coca!
- Io non mi drogo, cazzo!
Va bene. Questi hanno due mitra puntati su di me. Io ho una pistola nelle mutande. I casi sono due: o mi ammazzano oppure è tutta una messa in scena. Se io non sono realmente qua, ne esco pulito come una rosa, se invece è una stronzata che mi balena nella testa, allora vado direttamente all’inferno e buonanotte al secchio. Ogni giorno qualcuno ti punta qualcosa contro, che sia un dito per giudicarti che siano parole offensive, da qualche parte devi pur trovare il modo di schivare i proiettili, a meno che tu non voglia uscire con un giubbotto antiproiettile, che non serve ad un accidente, perché chi ti giudica ti fa un bel buco nella testa, e quel buco te lo porti appresso per tutta la vita. Quindi, o questa è un’illusione, un incubo sepolto nei miei reconditi pensieri che si sono rivelati sottoforma di criminalità inconscia per la mia eccessiva immaginazione, o tra pochi secondi, vi saputo tutti brava gente. Per scoprirlo tiro fuori la pistola. La punto verso il soffitto e i due iniziano ad azionare i loro mitra. Saltano pezzi di legno, frammenti di muro, piume di cuscini e il letto sembra abbia delle convulsioni. Un casino indescrivibile da rompere il martelletto dell’incudine che ho infilato nelle orecchie. Poi il silenzio. Io sono in piedi. Loro sono in piedi. Intorno tutto è grattugiato, nella mia testa l’acufene. Buchi nei muri, la porta dietro è in frantumi, la maniglia si è aggrappata alla serratura. Al rallentatore mi guardo a destra e poi a sinistra, abbasso i miei occhi sul mio corpo per osservare se per caso sia stato sbriciolato. Con le mani faccio un’ulteriore verifica: sono intero. Stanno ricaricando i mitra e io non riprovo per la seconda volta a convincermi che non sia lì, meglio alzare i tacchi e correre fuori da sto posto infame. Attraverso le vie di Tarapoto ed entro in un centro commerciale. Non mi hanno seguito. Hanno i soldi e la coca, che gliene frega. Entro in un bagno perché ci manca poco che mi caghi addosso. Finita la cerimonia entro in un ristorante. La fame chimica mi ha bucato lo stomaco. Ordino un sacco di porcheria piccante e mi bevo due birre fresche. Mentre m’ingozzo, vedo lei passare di corsa. Lei, quella del pullman che mi dormiva sulla spalla, e mi va di traverso la birra.

- Sto imparando - ha detto all'uccello - anche se è un apprendimento inutile, perché sono condannato a morire.
- Hai scoperto quanto tutto sia facile? - sembrava rispondere il corvo - basta avere coraggio.

(Vecchio detto peruviano)
continua...


mercoledì 9 novembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (8)

Un milione di dollari. Che ci faccio? Mi compro un loft, in centro, con una grande vetrata, come cazzo l’arredo? La parte superiore. Un letto a tre piazze, largo, comodo, un armadio a vista, aperto, jeans e camicie, scarpe, un tappeto, due affiche di Pollock, il muro giallo, il soffitto blu. Scendo, una hall senza muri, cucina in acciaio, divani, un mega televisore, un tavolo, le sedie, i muri, ci sbatto tutti i colori. Basta. Una macchina, piccola, ah, già, una libreria, con i libri. Lampade ovunque. Quanto avrò già speso? Il bagno. Idromassaggio. Una grande vasca a tre piazze. Vado alle Maldive. Mi compro un teatro, in legno, ci faccio Riccardo III, la tempesta, Amleto, Otello, quella roba lì. Apro un’attività. Non so. Qualcosa apro. Ma poco impegnativo. Un milione di dollari. Senta – sono in banca – vorrei fare un versamento. Di quanto? Un milione di dollari in contanti. E dove li ha presi? Li ho trovati in Perù. Senta… Sto scherzando. Ho già mal di testa. Li regalo. Macché dico. Col cazzo. Cappelli, un negozio di cappelli. E sciarpe. E guanti. E portafogli vuoti. E ci metto i soldi. Vendo portafogli con mille dollari dentro. Vorrei convertire un milione di dollari in euro. Scusi? Sto scherzando. Va bene. Ora esco. Vado all’ufficio postale di Tarapoto. Saluto il tizio al bancone, l’altro dorme sempre. Quando arrivo a destinazione c’è un sacco di gente. Aspetto in fila il mio turno. Una bandiera americana in Perù. Passa una mezzora e arrivo davanti all’impiegata. Assomiglia alla tizia della foto. Anzi è proprio lei. Venduta. Le chiedo se posso spedire del denaro in Europa. Lei mi dice di sì e mi chiede l’importo.
- Un millón de dólares!
Lei inizia a ridere. Ride così forte che si mettono a ridere tutti. Ora parla uno spagnolo stretto che non comprendo. E tutti ridono. Avrei voglia di tirare fuori la pistola e piantarle una pallottola in fronte.
- Scherzavo.
E me ne esco. Quando ritorno al “El pilota” due tizi armati mi aspettano nella mia stanza con una valigia piena di coca.
- Hey, amigo, el dinero?
Qui la situazione si mette proprio male. Il loft in centro non mi è mai piaciuto.
continua...


lunedì 7 novembre 2016

La ragazza che stendeva le lenzuola nel parco

Era una ragazza che stendeva le lenzuola nel parco. Arrivava con un grande cesto di lenzuola bianche e un foulard in testa. Prendeva un filo avvolgibile e lo legava con cura, in punta dei piedi, tra due piante che stavano nella giusta distanza. Si metteva le mollette in bocca e stendeva le lenzuola. Acchiappava le due estremità con le dita, sollevava il panno e lo lanciava. Lui, come un saltatore alla Fosbury che non supera col corpo l’asticella, si adagiava sul filo piegando...si perfettamente al centro. Un gesto lieve, eseguito con una forza precisa come se gli fosse arrivata una palla da alzare per una schiacciata. Ogni giorno, che c’era sole, lei stendeva. Quando aveva finito correva intorno, nascondendosi, per sbucare all’improvviso. Giocava da sola. Ci infilava la faccia nelle lenzuola, oppure, ci si attorcigliava. Forse voleva dare forma alle sue fantasie. Un giorno non la vidi. Sembrava che qualcuno avesse cancellato un dipinto da un quadro. Quello spazio vuoto tra le due piante era peggio di un tradimento. Provai sinceramente disagio, quindi, andai a casa e misi tutte le lenzuola che avevo in lavatrice, e le portai, in braccio, di corsa, nel parco. Passai il filo tra le piante, in punta dei piedi, e stesi le lenzuola con le mollette nella bocca. Stesso gesto, stesso salto in alto, stessa palla alzata. Cominciai a correrci intorno e ci misi la faccia dentro. Quando ebbi il fiato corto mi sdraiai a terra e iniziai a ridere guardando il cielo che si faceva grigio. E piovve sulla mia faccia. Quando mi tirai su, vidi lei con una molletta in bocca.
– Scusami… – le dissi imbarazzato – stavo…
– O isto osa avi acendo…
Presi una molletta anche io e me la misi in bocca.
– Erché on ei enuta ogi?
– Erché ioveva, itrullo!
Nessuno mi aveva mai dato del citrullo con una molletta in bocca in un giorno di pioggia.
Ci avvicinammo e incastrammo le due mollette.
Il giorno dopo era sempre una ragazza che stendeva le lenzuola nel parco con un ragazzo che teneva le mollette nella bocca.


domenica 6 novembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (7)

- Hey, hombre…
Vengo svegliato da uno scossone alla spalla. Apro gli occhi e vedo l’autista. Il pullman è arrivato al capolinea. Il giorno si è svegliato con me.
- Dónde estamos? – domando.
- En Perù.
Riprendo coscienza lentamente. Sono riemerso da una profondità ignota.
- La chica? dónde está? – chiedo con vigore all’autista.
- Qué chica?
Gli descrivo, con enfasi, come quando si perde la testa, la ragazza che ha dormito sulla mia spalla tutto il viaggio; gli dico com’era vestita: i suoi capelli, le sue mani, il suo profumo.
Lui ride. Lui se la ride coi sui quattro denti in croce.
- Hey, hombre, un extraño ve siempre el sol.
E se ne va ridendo ancora.
- Un nuevo sol, hombre, es un sueño.
Possibile che quella ragazza non sia esistita? Eppure sento ancora la pressione sulla mia clavicola. Scendo dal pullman. In tasca ho ancora la moneta, e la pistola sempre dietro alla schiena. Salgo su un moto taxi.
- A dónde vamos?
- Vamos.
Lui alza le spalle e parte. Ripenso a lei dimenticando tutto il mondo intorno. Riavvolgo la pellicola della sera prima, cerco la sequenza di lei che si avvicina. Non la trovo. Una scena che è stata tagliata dal regista. Già, ma chi è il regista? Buona la prima!! poi qualcosa deve essere andato storto, poi qualcosa ha deciso che quello che era successo andava cancellato, per mancanza di coerenza, per mancanza di un seguito, per mancanza di fondi. “Questa no”, un ordine arrivato al montaggio. Eppure quella scena era perfetta, possibile che si cambi il progetto dovuto dal caso? Voglio quella immagine, voglio quel momento, voglio quel ricordo conficcato nella mia mente che posso andare a cogliere quando voglio, indipendentemente se gli occhi saranno aperti o chiusi. Non c’è, non la trovo. Ora ricordo che da bambino persi una moneta perché avevo le tasche bucate. Piansi perché era la prima moneta che mi venne regalata. Mio nonno mi disse di tenerla con cura, e io la persi. La cercai per tutte le strade del paese ma non la trovai più. Mi sentii così povero che dovetti mentire a tutti dicendo che l’avevo messa in un posto sicuro. Il posto sicuro per tutta la mia vita è sempre stato nelle tasche degli altri.
Fermo il moto taxi. Pago il dovuto. E lui parte. Non ricordo quanta strada abbia fatto. Davanti a me un bar con l’insegna “El piloto”: posto ideale per farsi portare. Da quando sono qui, mi sono solo fatto pilotare. Entro. Un signore dorme sul tavolo, un altro sta dietro al bancone.
- Donde puedo encontrar una habitación?
- Aquì.
Mi porge una chiave, due birre e mi indica la porta. Mi chiudo dentro. Mi spoglio e mi faccio una doccia veloce poi salto sul letto. Il mio culo batte su qualcosa che sta sotto. Guardo bene e ci trovo una valigia. La tiro verso di me e l’apro. Dentro ci sono un sacco di dollari. Li conto. Un milione di dollari. Una cazzo di valigia con un milione di dollari. La paura mi prende il cuore. Mi manca l’aria. Che cazzo ci faccio con una valigia con un milione di dollari? Mi vesto, rimetto la valigia sotto il letto. Apro la porta, vado verso il barista:
- Perdóname…
Non mi fa fare neanche la domanda che mi risponde immediatamente.
- Un amigo muerto.
E si fa il segno della croce.
In questo posto l’hombre vive, l’amigo, fa sempre una brutta fine.

continua...



mercoledì 2 novembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (6)


La poca gente che viaggia con me sul pullman ha lo stesso sguardo dei contadini del mio paese natio. Meglio una sicura infelicità che una felicità incerta. Me lo dicono le loro espressioni, le loro rughe marcate, i loro calli, le unghie gialle. La terra: unico concetto, unico capitale, unica crescita. Piove e qualcosa cresce. Non c’è crescita più sincera della terra. Ma le facce dei contadini hanno la fatica tra la mandibola e le sopracciglia. Quella durezza di chi si spacca la schiena e contorce la faccia. Eppure fuori c’è il paradiso e Caronte alla guida. In fondo cos’è che ci riempie di felicità? In fondo siamo solo qui di passaggio. In fondo un ragazzo suona un violino. Toccare il fondo per risalire, questo è il dovere del seme. In questo luogo la luce è diversa, è una luce simile a quella di tanti anni fa. Sfumature, nebbia invisibile, lampadine fioche sui lampioni curvi. Umili lampioni di tutto il mondo, unitevi e alzate la testa! Troppo chiaro da dove sono partito, in questo luogo esiste ancora qualche margine di mistero. Sono tutti stravaccati sui sedili. La stanchezza li avvolge e li rende dei burattini. La stanchezza è vitale. Lasciatevi andare. La testa appoggiata al vetro, il naso mi duole. Vorrei chiudere gli occhi e dormire. Niente.
Quand’è che la montagna si prende il sole?
Quand’è che il mare si prende la luna?
Quand’è che la foresta si prende le stelle?
Io non ho paura. Suona ragazzo suona. Io ho una missione. Io e la mia pistola. Quando questo pullman si fermerà prenderò una decisione.
Una ragazza dai lunghi capelli neri avanza nel corridoio. Ha un vestito di gelsomini. Non sembra del posto. È magra come un ramo, un raggio di sole, uno spicchio di luna. Profuma di limone. Mi siede accanto e me lo spruzza. Le sue mani sono ramoscelli, le muove sospinte dal suo respiro, un fiato caldo d’estate le esce dal piccolo naso. Mi guarda con la bocca chiusa. Abbasso leggermente la testa verso le sue gambe come un lampione, le osservo le caviglie, scogli asciutti, c’è bassa marea, l’acqua si ritira. Si aggiusta i capelli, inarca la schiena, e sbocciano i suoi seni. Poi lentamente si lascia andare, non prima di avermi offerto i suoi occhi castani. Si abbandona. La sua testa si avvicina. La mia spalla si prepara. Gentilmente cade come una foglia e si adagia. La sua tempia nel vuoto cerca il contatto, dolcemente mi sfiora come se mercurio avesse incontrato plutone. La sua chioma solletica il mio collo.
Sono la montagna, il mare e la foresta. Lei le stelle, il sole, la luna.
Caronte rallenta, il paradiso è sulla mia spalla.
continua...



martedì 1 novembre 2016

La Cri


La Cri non è turca. La Cri fuma come una turca. È un fiume in piena quando parla e le esce il fumo dalla bocca anche se non ha la sigaretta accesa. Ci si potrebbe scrivere un libro su le sue passate avventure, ma ne racconta così tante che uno poi se le dimentica. Però, a me una è rimasta impressa: cioè, lei ha un fratello che vive a New York in zona Manhattan, che non vede da 12 anni, e non ci vuole andare. Quindi, le ho chiesto il motivo.
- Hai paura di volare?
- Macché paura di volare…
- Soffri di claustrofobia?
- Macché claustrofobia…
- Hai timore di attentati?
- Macché timore di attentati…
- E cosa allora?
- Ma secondo te, io posso stare 12 ore senza fumare?
Proprio così, non va a New York perché non può fumare sull’aereo. Mi ha detto che ha provato ad andare da uno sciamano per indirizzarla, con la meditazione a occhi chiusi, a visualizzare un sogno lucido che durasse 12 ore, dove lei poteva fumarsi tutte le sigarette che voleva anche se non era reale. Lo sciamano le aveva assicurato che con un po’ di disciplina ci sarebbe riuscita. Ma dopo un mese di tentativi quotidiani si era ritrovata nel sogno lucido che non trovava mai l’accendino e si infervorava come una pazza isterica. Per colpa di quelle meditazioni, andava e veniva dalla realtà al sogno lucido, finché un giorno si trovò a Torino in piazza Castello senza sigarette, e non sapeva se era vero. Probabilmente le aveva perse da qualche parte o le erano scivolate dalla tasca. Erano le 23 e i tabacchini erano chiusi. In preda al panico cercò disperatamente un distributore automatico che non trovò, ma vide un autobus in moto, senza autista, il quale era sceso un attimo a controllare se aveva un gomma a terra. Lei ci salì di brutto e partì velocemente. Era il 5 sbarrato. Sfrecciava per la città e avendo fatto un percorso sicuramente diverso, ogni persona in attesa alla fermata, esclamava:
- Che ci fa il 5 sbarrato...
Vmmmmm
Quando arrivò a destinazione, quattro pantere della polizia erano già sulle sue tracce. Non riuscì a prendere le sigarette perché venne ammanettata e portata in questura.
- Datemi un sigaretta, cazzo! – urlava strattonando i poliziotti. Nessuno fumava.
Anche al commissariato non c’era un tabagista a pagarlo.
- Ma dove sono finita? Il tenente Colombo fumava e risolveva casi di omicidio. Cazzo! Siete degli incapaci.
- Vuole chiamare il suo avvocato?
- Io voglio chiamare il mio tabacchino!
Il commissario dopo due giorni decise di lasciarla andare con una multa salata, perché trattenerla lì sarebbe stato dura anche per loro, dato che lei aveva fumato le bellezza di 10 pacchetti di sigarette accendendone una dopo l’altra.
- Sono una giungla! – furono le sue ultime parole rivolte al commissario prima di uscire cantando a squarciagola “Smoke on the water”.
Il giorno dopo, in caserma, tutti i poliziotti iniziarono a fumare, in quanto – e lei questo non lo sapeva e non l’avrebbe mai saputo – erano degli ex fumatori che avevano smesso di fumare grazie a uno sciamano che aveva insegnato a tutta la combriccola il sogno lucido.