domenica 31 gennaio 2016

Il bacio che non ti ho dato

Il bacio che non ti diedi è un bacio che non ti ho dato.
Eravamo in piedi, al primo piano, sul pavimento labile di un locale diroccato. Bastava fare un passo e sarebbe crollato. Era una casa di legno in mezzo a un prato, sulla parete c’era un manifesto di un film già visto, un manifesto strappato, via col vento.
Mentre tutto scricchiolava noi mangiavamo ciliegie rubate da un albero.
Un’ora prima le mie mani sollevavano il tuo piede nudo mentre tu raccoglievi quelle gocce rosse come le tue guance quando ti ero vicino. Avevi una gonna bianca come la caviglia, e alzai la testa. Non te lo dissi mai, ma sbirciai, fino al tuo cavo popliteo: in quel luogo chiuso avrei volentieri abbandonato il mio muso.
Sputai il nocciolo e lo guardammo rimbalzare; quel giorno, non ti diedi un bacio perché era troppo presto. Un bacio non dato è senza passato, è una ciliegia appesa che diventa amarena, è girarsi di schiena. Non lo feci per non essere scaraventato nel futuro, tu lo sapevi come odiassi quello che non si era ancora avverato. Masticare i nostri baci non dati mi tolse le immagini e anche il fiato, i figli mai nati, i semi seccati, solo per non essere contaminati dagli obblighi. Non ti diedi quel bacio perché avevo parlato sapendo che non avevo nulla da dirti. Ti guardai la guancia e ti urlai sottovoce il mio silenzio mentre tu osservavi il piano sottostante come un angelo sul tetto di un campanile. Ma il tempo è passato, scandito, tu sei stata baciata da altri, e io mi tengo questo desiderio rimasto, perché un bacio non dato vive molto più a lungo in eterno.
- Perché non mi baciasti?
- Perché sarei caduto!



martedì 19 gennaio 2016

Il palazzo delle femmine

Era un palazzo che stava a duecento metri dal mio. Io ci andavo sempre nelle serate d’estate per abitudine, ci andavo sempre perché era il palazzo delle femmine. Mi sembrava di stare in una storia di Isabel Allende. In quel periodo dalle finestre radio a tutto volume suonavano cantautori italiani, in quel periodo le radio a tutto volume non davano fastidio a nessuno. Oggi c’è troppo silenzio nelle strade, troppo rispetto perché non si vuole disturbare. In quel tempo nei cortili ci si metteva a urlare, a ridere e a correre sulle strade sterrate. Io ci andavo sovente solo per le ragazze. In quel palazzo, dieci o quindici anni prima, nacquero solo donzelle. C’erano un sacco di sorelle: Antonella, Giovanna e Claudia, oppure Patrizia, Doriana e Roberta per citarne alcune. Tutte con qualche anno di differenza, in quelle famiglie il maschio era solo il padre. E poi Mirna, Roberta, Claudia e Franca, se non ricordo male. Gli altri maschi come me arrivavano come i gatti da altre zone. A me piacevano tutte. Antonella slanciata, alta come una puledra, Patrizia molto sicura, Doriana una bellezza misteriosa e Roberta che mi ricordava la Bertè, forte e ribelle... erano tutte belle. Ma io ero innamorato di Giovanna. Un amore platonico perché aveva un viso a forma di calice e i capelli come i rami di un salice. Per non parlare della voce unica e inconfondibile, leggermente sotto tono disturbata dal cuore. Giovanna aveva il cuore in gola, e in tutte le parti del corpo risuonava. Io volevo assolutamente baciarla. Ogni volta che giocavamo a nascondino io la seguivo. Dove andava lei andavo io. Nella siepe, nel boschetto, dietro ai garage, nelle cantine, tra i cespugli, io ero a nascondermi con lei e i suoi dettagli. Stavamo sempre accovacciati: lei davanti a fare da vedetta, io dietro a pensare come baciarla.
- Adesso aspetto che si giri e la bacio… no, è meglio che glielo chieda… no, un bacio non si chiede… ma come faccio!!! Dai girati!!! Le prendo la mano… No… non posso…
Io pensavo a tutto questo mentre le guardavo la nuca. Chissà se si era mai accorta che non la volevo come un’amica!? Una volta c’ero quasi riuscito, ma lei mi ha preso la mano:
- Andiamo!
- Dove?
- In un altro nascondiglio.
Non trovavo un appiglio.
Tante sere d’estate così. E più passava il tempo e più era difficile farlo, anche se mi allenavo ogni giorno con lo specchio.
Una sera però, mentre uno contava, la persi di vista. Lei scappò a destra e io a sinistra. Girammo attorno al palazzo. Dietro c’era buio pesto, non si vedeva un cazzo. A metà percorso io e Giovanna, correndo ci scontrammo e ci demmo una capocciata: una testata così violenta che finimmo a terra. Se ci fosse stato uno scienziato del Cern e avesse visto quella collisione, dalle scintille avrebbe scoperto il Bosone.
Beh, non sarà stato un bacio e neanche un amore a prima vista, ma quella sera, almeno, perdemmo per qualche minuto, entrambe la testa.

“Inseguendo una libellula in un prato,
un giorno che avevo rotto col passato,
quando già credevo di esserci riuscito,
son caduto…”

mercoledì 13 gennaio 2016

Vorrei essere David Bowie


Si pensa che la crisi economica, sociale e politica sia colpa di poteri occulti che hanno condizionato le nostre vite. Certo, la responsabilità di queste corporature di mascalzoni e delinquenti che si spartiscono le nostre risorse c’è, però, ho come l’impressione che lasciamo che questo accada, per un motivo che adesso provo a spiegare tramite il mio umile e strano punto di vista.
Noto che tutti abbiamo dei miti a cui teniamo e che idolatriamo, definendoli dei geni. David Bowie era un trasformista, ha basato la sua vita sull’ambiguità e ancor oggi non sappiamo dove collocarlo, anche musicalmente, soprattutto perché lui non ci ha mai dato questa possibilità, quindi, non esiste una verità su di lui. È questa sua scelta fuori dal comune sentire che gli ha permesso di scoprire veramente chi fosse per poter diventare quello che tutti abbiamo ammirato. Ma noi avremmo voluto fare una vita come quella di David Bowie? Saremmo andati in giro per le nostre città di provincia a esporsi come faceva lui? Naturalmente no! Certamente non è che dobbiamo tutti diventare delle rockstar, ma il nostro obbiettivo che abbiamo nella vita è tentare di fare quello che ci piace, perché ce lo chiede ancora quel bambino di 5 anni che siamo stati. Che vorresti fare da grande? Era la domanda ricorrente, e noi rispondevamo immediatamente, invece ora che siamo grandi dobbiamo pensarci per giorni o peggio per anni. Il problema è che quando tentiamo di diventare metaforicamente dei David Bowie, c’è un sacco di gente che ti dice di lasciare stare, che è difficile, e tentano in ogni modo di smontartelo prendendoti anche per il culo, solo perché secondo loro non sei credibile, quindi, non lo fai, e a quel punto senti il bisogno di aggrapparti al mito, a chi ha avuto il coraggio, idolatrandolo o peggio disprezzandolo. Non so se questo commento regge, e non me ne importa un ficco secco, quello che voglio dire, in conclusione, è che noi abbiamo un problema tutto individuale che si chiama vergogna. C’è un sacco di gente che muore ogni giorno per la vergogna, c'è un sacco di gente che non si ama per la vergogna.

lunedì 11 gennaio 2016

Senza neve

È un inverno senza neve, non c’è rimedio, non vuole apparire come i fantasmi nell’armadio.
– Dio non si rasa.
– Avrà finito la schiuma.
Il cielo è chiaro e pulito, luccica da quanto è spazzolato. Il silenzio notturno non è ovattato, ci vorrebbe la dinamite, ma nel cassetto tieni solo del cotone che non ti basta per curarti le ferite.
La terra è dura e avrebbe bisogno di un lenzuolo. Non sei solo, sei solo in compagnia di te stesso. Hai necessità di ascoltare quel passo, quel passo morbido, è per quello che hai cambiato le suole, se Dio vuole. Le tue orme le riconosci, forse sarebbe meglio a piedi nudi, fino a quando resisti, tanto non è molto diverso che camminare sui carboni ardenti. Se esiste la danza della pioggia ci sarà anche quella della neve. Basta sentirsi un fiocco che cade, tanto lui non si fa male, si appoggia, e se ben asciutto – cazzo – può diventare una cellula per un pupazzo.
– Domani bel tempo, soleggiato… – dice alla televisione un ciarlatano mentre tu te ne stai con una scopa, un cappello e una carota in mano.


giovedì 7 gennaio 2016

Il treno


Presi il treno al volo. Il capostazione aveva appena fischiato. Quando chiusi la porta, il treno si mosse. Andai a cercare lo scompartimento segnato sul biglietto. Quando lo trovai, entrai faticosamente trascinando la valigia che s’incastrò nella porta scorrevole. Rischiai di cadere a terra. Chissà perché si ha fretta di posizionare la valigia, d’altronde il treno è partito. Con la precisione di un sollevatore di pesi misi la valigia dove doveva stare e mi lasciai andare di botto sul sedile.
- Passa una volta sola! – mi disse un uomo anziano davanti a me.
- Cosa?
- Il treno.
Non avevo capito se era una battuta o una cosa seria.
- Lei dove è diretto? – gli chiesi.
- Da nessuna parte.
Mi misi a ridere e guardai fuori facendo finta di niente.
- E lei? – mi chiese – dove è diretto?
- A differenza di lei, in un posto preciso.
Fece un sorriso e guardò fuori anche lui. Calò il silenzio: noi dentro e le nostre facce fuori riflesse sul vetro. Entrò il bigliettaio.
- Biglietti!
Io gli diedi il mio che venne timbrato.
- Signore, il suo, per favore.
L’anziano non lo guardò neppure. Il bigliettaio ebbe quel sussulto che hanno tutti i bigliettai quando trovano qualcuno senza biglietto. Provano un certo piacere profondo.
- Mi scusi, il biglietto… le devo fare una multa… mi ascolta?
- Non ho alcun biglietto.
Il bigliettaio cominciò a scrivere. Io non sapevo che fare.
- Senta lo pago io il biglietto al signore, è salito con me.
- Va bene! Dove è diretto signore?
- Da nessuna parte! – rispose.
- Bene le faccio il biglietto fino al capolinea – disse con una certa soddisfazione.
Pagai il dovuto e il bigliettaio chiuse la porta.
- Grazie.
- S’immagini.
A quel punto prese il cappotto e il cappello e mi salutò.
- Arrivederci.
- Ma dove sta andando?
- Da nessuna parte.
- Ma sta scherzando?
- Ma ci vada lei al capolinea.

domenica 3 gennaio 2016

Jack o Daniel

Ogni volta che ho qualcosa di importante da dire chiamo sempre Jack, lui che in realtà si chiama Daniel. Gli do appuntamento alle nove di sera in un famoso locale, quindi, io arrivo un’ora dopo. Perché? Perché lui aspettandomi si ubriaca. Quando è in questo stato mi è utile nelle risposte, non riesce mai a finirle, a differenza dell’alcool. Mi piacciono le sue considerazioni incomplete, mi completano.
- Senti, paliamo di cose serie…
Lui è già aggrappato al bancone del bar.
- Cose se…
L’ho interrotto.
- Sentimenti…
- Senti… menti… – E si è messo a ridere.
Ecco. A quel punto mi è arrivata un’immagine di vita passata. Succede sempre così con Jack, ti arrivano immagini, solo perché tra uomini non si parla mai di queste robe che solleticano il cuore.
- Da quant’è che non…
Non l’ho più ascoltato e mi sono focalizzato sull’immagine. Avevo 6 anni circa, e c’era questo Lucignolo, di cui non ricordo il nome, che mi bucò il pallone. Io allora non dissi niente perché mi cagavo addosso dalla paura. Lui era il doppio di me, anche perché, ora che ricordo bene, era il figlio del macellaio. Questo troglodita si strafogava di carne ogni giorno, mentre io la mangiavo solo la domenica col risotto allo zafferano. La carne in questione era sempre l’osso buco quello coi nervi duri da masticare. Che nervi!!!
Comunque, per tornare al discorso, ora vorrei poter andare da sto tizio, dopo quarant’anni, e dirgli tutto quello che non gli dissi allora, a spiattellargli in faccia tutti gli insulti possibili immaginabili. Il problema, o meglio, il mio timore, è che una volta suonatogli il campanello, questo tizio sia molto gentile, e si ricordi, e mi chieda scusa, e scopro che è una specie di membro dell’esercito della salvezza che invita i barboni a mangiare a casa sua ogni maledetto Natale, che ha una moglie cortese, due bellissimi figli, e ha fatto costruire pozzi d’acqua in Congo. A quel punto mi fumerebbero di più perché speravo di trovarlo in galera per spaccio, prostituzione o altra roba per cui si mette la gente in prigione. Quello che non capisco però, perché quando incontro Jack o Daniel, fate voi, mi capitano queste associazioni mentali contraddittorie.
- Senti, ti va di ubriacarci? – gli ho chiesto.
- Ottima id…
Io non ho bevuto neanche un goccio.
- Grazie per la chiacchierata.
Lui ha alzato la mano, l’unica cosa che è riuscita a sollevare, e io me ne sono andato senza pagare un centesimo.
- Cia… o…
- Chi paga, scusi! – ha chiesto il barista.
- Non ha paga…
- No!
- Sto figlio di… sa… tanto tempo fa… gli ho bucato il pallone.





sabato 2 gennaio 2016

Just in time

Me ne stavo lì con l’accurato elenco della spesa e il carrello vuoto, a cercare di trovare le migliori offerte prezzo/qualità sugli scaffali del supermercato. Se c’è una cosa che ho imparato, del mio ex lavoro da magazziniere, è quello di non fare mai la scorta, perché è denaro che non hai in tasca. Il termine esatto, se non ricordo male, è “Just in time”, una specie di consumo e approvvigionamento in tempo reale, o qualcosa del genere: non compri fino a quando non hai finito quello che hai nella dispensa. Il problema è che ti rimane solo qualche reminiscenza, di pensiero produttivo ed efficacie del tempo che fu, che usi con raziocinio per la sopravvivenza (Dovessi tornare a lavorarci su, rischierei di produrre innumerevoli mancanze, perché quando smetti di botto di lavorare, poi pensi che non sei più capace di fare niente – e qui la questione si dirige verso l’autostima e cazzate varie). Comunque, mentre faccio attenzione ai prezzi come un ragioniere, si presenta lui: l’uomo con il carrello stracolmo. È il classico tizio over, nel senso che ha una certa… ma è lontano dalla pensione. Butta dentro ogni cosa che gli capita e si mette a fare conversazione. Attacca bottone con l’elenco dei “Se avessi fatto…”, una sorta di decalogo di occasioni perdute, e io che lo ascolto con una bottiglia di Shiraz in mano, da 13 gradi, con lo sconto del 45%. Non molla un attimo, è una valanga di “se avessi fatto…”, che se le avesse fatte quelle cose, oggi sarebbe non so bene cosa, ma sarebbe migliore perché si sentirebbe più cazzuto. Mentre lo dice con fervore, il cazzone prende due bottiglie di Amarone (Cristo santo, da quant’è che non bevo l’Amarone, mi viene da pensare, con le bave). Ma lui con nonchalance prende anche il Barbaresco. È a quel punto che Vattelapesca si rivolge a me, che fino a quel momento non avevo spiaccicato parola, chiedendomi con un pretesto:
- E tu?
- Io?
- Sì, tu. Che mi dici, tu!
- Io l’ho fatto!!
- Ahahahahahahaha
- Ahahahahahahaha
Ride e se ne va spingendo questo TIR di scatolame e bottiglie di vetro, mentre io rinuncio allo Shiraz perché ho ancora a casa due bottiglie di Grignolino.