martedì 19 gennaio 2016

Il palazzo delle femmine

Era un palazzo che stava a duecento metri dal mio. Io ci andavo sempre nelle serate d’estate per abitudine, ci andavo sempre perché era il palazzo delle femmine. Mi sembrava di stare in una storia di Isabel Allende. In quel periodo dalle finestre radio a tutto volume suonavano cantautori italiani, in quel periodo le radio a tutto volume non davano fastidio a nessuno. Oggi c’è troppo silenzio nelle strade, troppo rispetto perché non si vuole disturbare. In quel tempo nei cortili ci si metteva a urlare, a ridere e a correre sulle strade sterrate. Io ci andavo sovente solo per le ragazze. In quel palazzo, dieci o quindici anni prima, nacquero solo donzelle. C’erano un sacco di sorelle: Antonella, Giovanna e Claudia, oppure Patrizia, Doriana e Roberta per citarne alcune. Tutte con qualche anno di differenza, in quelle famiglie il maschio era solo il padre. E poi Mirna, Roberta, Claudia e Franca, se non ricordo male. Gli altri maschi come me arrivavano come i gatti da altre zone. A me piacevano tutte. Antonella slanciata, alta come una puledra, Patrizia molto sicura, Doriana una bellezza misteriosa e Roberta che mi ricordava la Bertè, forte e ribelle... erano tutte belle. Ma io ero innamorato di Giovanna. Un amore platonico perché aveva un viso a forma di calice e i capelli come i rami di un salice. Per non parlare della voce unica e inconfondibile, leggermente sotto tono disturbata dal cuore. Giovanna aveva il cuore in gola, e in tutte le parti del corpo risuonava. Io volevo assolutamente baciarla. Ogni volta che giocavamo a nascondino io la seguivo. Dove andava lei andavo io. Nella siepe, nel boschetto, dietro ai garage, nelle cantine, tra i cespugli, io ero a nascondermi con lei e i suoi dettagli. Stavamo sempre accovacciati: lei davanti a fare da vedetta, io dietro a pensare come baciarla.
- Adesso aspetto che si giri e la bacio… no, è meglio che glielo chieda… no, un bacio non si chiede… ma come faccio!!! Dai girati!!! Le prendo la mano… No… non posso…
Io pensavo a tutto questo mentre le guardavo la nuca. Chissà se si era mai accorta che non la volevo come un’amica!? Una volta c’ero quasi riuscito, ma lei mi ha preso la mano:
- Andiamo!
- Dove?
- In un altro nascondiglio.
Non trovavo un appiglio.
Tante sere d’estate così. E più passava il tempo e più era difficile farlo, anche se mi allenavo ogni giorno con lo specchio.
Una sera però, mentre uno contava, la persi di vista. Lei scappò a destra e io a sinistra. Girammo attorno al palazzo. Dietro c’era buio pesto, non si vedeva un cazzo. A metà percorso io e Giovanna, correndo ci scontrammo e ci demmo una capocciata: una testata così violenta che finimmo a terra. Se ci fosse stato uno scienziato del Cern e avesse visto quella collisione, dalle scintille avrebbe scoperto il Bosone.
Beh, non sarà stato un bacio e neanche un amore a prima vista, ma quella sera, almeno, perdemmo per qualche minuto, entrambe la testa.

“Inseguendo una libellula in un prato,
un giorno che avevo rotto col passato,
quando già credevo di esserci riuscito,
son caduto…”

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