martedì 27 dicembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (19 e ultima puntata)



La cosa più banale da fare a Natale è quella che fai ogni santo giorno: tornare a casa. Lo hanno detto in tutte le salse, filosofi e scrittori di ogni era. La irrefrenabile necessità del viaggio alla scoperta di se stessi per poi volgere al ritorno. Il mio viaggio è stato surreale perché lo richiedeva il tempo. Questo bisogno di stare immerso tra la realtà e il sogno, questa imperturbabile occasione di distacco tra il corpo e lo spirito: il pensiero fantasioso e la razionalità di ciò che è vivo e vegeto. Passo tra la gente in questo Natale strano senza neve, senza Dickens, in un luogo estivo, vedo un albero illuminato. Ho in tasca la moneta e la pistola. Me ne voglio liberare immediatamente. Un barbone chiede l’elemosina e la metto nel suo cappello: cose già dette, già fatte, già scritte. E a chi avrei dovuto consegnarla? Il nuevo sol sta in un povero cappello sgualcito. Ora la pistola che non ha mai sparato, dovrebbe esprimersi come direbbe Checov. A cosa dovrei sparare? A chi dovrei sparare se non a me stesso? Mi siedo su una panchina a fianco di un bambino che gioca coi soldatini. È così attento che mi trascura. Provo a guardare se sta combattendo. Si accorge di me e si nasconde, lui e i soldatini, voltandomi le spalle. Bene, è ora di capire se questo tempo è fasullo. Prendo la pistola, la porto alla tempia. Rido di gusto e premo il grilletto. Uno sparo fortissimo ferma la piazza. Tutta la gente è immobile. Tante statue di gesso.
- Salve! – esclama il bambino.
- Salve! – replico io.
Fingo di morire nel modo infantile per far sorridere colui che ho accanto. La gente torna a muoversi come se nulla fosse successo. Consegno la pistola giocattolo al bambino e mi avvio sulla strada del ritorno. Solange è solo un ricordo, Solange è una pallottola al cuore, Solange è fuori dal tempo, Solange è la mia memoria.
- Hey, amigo
Mi giro...
Fine della storia.  


giovedì 22 dicembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (18)


Antofagasta, Lat 23°26'35''S

Come un piccione viaggiatore sono venuto qui per ricevere un messaggio e volare via sulla strada del ritorno, invece mi ritrovo qui al termine dell’inizio come Colombo, per confondere le Indie con le Americhe, per confondere le nuvole nelle pozzanghere. In questo solstizio d’estate, oggi sono precisamente sul punto esatto delle mie ricerche. Inutile tentare di spiegare la vita, ogni frase è zoppicante, è una ruota di un carro che sta per saltare: più si è in pericolo, più i cavalli imbizzarriti con i paraocchi corrono per scongiurare la morte. Eppure, io sono sveglio, cammino come un fantasma terrorizzato dall’evento. Il sole sta per arrivare nella sua perfetta verticale. La mia testa rivolta al cielo per levarmi dalla mente lo scarto che c’è fra le idee e la forza vitale. Tutte le particelle del mio corpo sono in attesa come soldati in trincea pronti per l’assalto finale. Ma qui sono all’inizio e il tempo si muove disordinato. Il nuevo sol è questo: è la nascita, la salvezza, l’avvento, dall’altra parte del mondo è il giorno più buio dell’anno. Sono prossimo al miracolo, l’astro incandescente sta per giungere sulla mia testa, manderà i suoi raggi come frecce scoccate dai castelli in aria, quelli da me costruiti per difendermi dalle invasioni boicottanti delle mie percezioni innocenti. Ogni giorno della mia vita mi sono focalizzato inutilmente su come tirare avanti. Mai ho pensato ha buttare acqua sul fuoco, mai ho pensato alle molteplici abilità nascoste, agli spazi di movimento, alle cime da scalare e alle discese sulla neve. Mai ho pensato a prendermi il tempo e metterlo in tasca: un fazzoletto bianco per asciugarmi il sudore, un fazzoletto bianco da sventolare. Mi manca il fiato, respiro male. Che fatica questo sole lento. La mia ombra si ritira mestamente e viene verso di me, giusto per sprofondare sotto ai miei piedi fino al centro del mondo. Manca pochissimo e mi assale una tristezza, un’altra invasione. Abbasso la testa e l’ombra è sparita. Il sole è perfettamente allineato a me. Io e il sole. Una spada calda mi trafigge e mi attraversa dalla testa fino al perineo e mi pianta in terra come uno spillo in una farfalla da collezione, che vidi anni fa nella villa Meleto di Guido Gozzano: “Signora felicita m’apparisti così come in un cantico del Prati, lacrimante l’abbandono per l’isole perdute nell’Atlantico; ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono sentimentale giovine romantico. Quello che fingo d’essere e non sono!” Viaggio velocemente in tutte le mie vite vissute come un lepidottero sfuggito da un entomologo distratto a cercare un ago in un pagliaio. Inizio a tremare come un diapason impazzito alla velocità della luce: onde sonore, frequenze che cambiano il corso della materia, e tutto diventa gassoso e vibrante. Una nebulosa di fumo si espande, contiene colori accesi mai conosciuti, si uniscono e ne formano altri. In questo turbinio di emozioni apro gli occhi, senza sapere se li avevo veramente chiusi, e Solange è ad un palmo di naso. Mi bacia con delicatezza ed entra nel mio corpo e io nel suo. Concime vivo come se tutto l’amore e la compassione del mondo venisse coltivata in quell’abbraccio invisibile, giorno per giorno, in quel senso di benessere che vorrei tenere per sempre. Eccola, la infinitezza del vuoto, un lampo di meteora sull’orlo di un mondo perduto. Un sudore cola giù insieme alle lacrime per quel desiderio sopraggiunto che nessuno conosce e che nessuno sarebbe mai in grado di comprendere. Ci affogo in questa benedizione e tutte le cose perdono il loro nome e il loro valore. Cala il silenzio nel silenzio, l’incipit dev’essere nell’ombelico: il giorno del cordone tagliato. Il distaccamento della navicella lasciata libera nello spazio, un satellite per far rimbalzare le onde come una racchetta da ping pong e il mondo attaccato a un filo, il mondo che ritorna sempre ogni volta che desideri, ogni volta che la tua anima vorrebbe ripetere questa esperienza incredibile. Ritorna l’ombra, ritorna tutto e tra pochi giorni è Natale.
continua...

venerdì 16 dicembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (17)

Dall’altra parte del mondo fino al centro della terra, nel vertice l’unico spiraglio. Uno strappo profondo della superficie interna: un pezzo di cielo, un pezzo di roccia, un divieto, un cane, una clessidra, un drago, un elettrocardiogramma, un signore distinto con un cilindro in testa. L’anatomia della terra, l’anatomia dell’occhio. Passo dalla camera anteriore alla camera posteriore tramite il canale, l’ora serrata dei processi ciliari indicano come lancette la capsula e il nucleo del cristallino, così cristallino nella chiarezza; il disco ottico ruota sul nervo tra le vene vorticose suona il muscolo ciliare, dura madre, sclera, la pupilla nella lettura dell’iride, macula la retina nella fascia bulbare fino alla cornea. Viaggio nell’occhio fino al centro della terra. Vedo tutto quanto. Ho fatto tutto questo solo per vederti in ogni frammento, in ogni lacrima lubrificante, in ogni battito di ciglio. Non sempre si piange, a volte l’occhio vuole solo la sua parte. L’occhio che si asciuga non può seccare, è come una spiaggia bagnata dal mare. Miliardi e miliardi di bulbi che sbocciano immagini, un occhio che vede e l’altro a dare conferma. Che siano in senso orario o che tornino indietro, loro ruotano. Di notte vibrano nel sogno come ali di insetto, come il becco del picchio, sulla corteccia, scavano nelle profondità del tronco. Tutto quello che si vive dormendo è astratto, in un momento ti trovi nel fango e un attimo dopo voli sul trespolo. L’occhio è il mondo dove viviamo, solo il cieco conosce la storia da dentro: il centro della terra, dove i terremoti fanno a pugni con la roccia e la lava, come il sangue, cerca crateri per venirne fuori ad espandersi quando l’occhio brucia di invidia. Non basta un po’ di collirio per alleviare il dolore della sofferenza umana, basterebbe tenerli aperti quando è ora, quando le lancette si mettono in posa per segnalare l’inizio delle campane. Suonate, suonate così, che io mi possa girare, verso i tuoi occhi lucidi quando mi stai troppo vicino da non metterti a fuoco. Hai fatto fuoco nel momento in cui li hai spalancati, le tue sopracciglia sembravano tergicristalli. Qualcosa ci separa, non sono gli occhi chiusi, non è la proiezione, non sono gli specchi e neanche la linea dell’equatore. Mi sono svegliato al centro della terra, ora mi arrampico verso lo spiraglio per ridurre in un puntino la pupilla, un abbaglio; vengo a cercarti nel tropico del capricorno, nel solstizio d’estate, vengo a cercarti perché ti voglio vedere, ti voglio vedere bene, con gli occhi colorati di cielo, per essere lì nel momento in cui si manifesta il sole nella sua perfetta verticale e l’ombra rimane per poco tempo appesa ad un filo.   
continua...

giovedì 8 dicembre 2016

Giulia


Lascio a voi le mie scarpe, le lascio perché le vediate. Osservatele bene: sembrano abbandonate. Quindi, io dovrei essere quella che scatta la foto a piedi nudi sull’erba. Invece sono lì, solo che sono trasparente come l’aria. No, non mi sto rendendo invisibile, voglio solo che m’immaginiate: ognuno con il proprio sentire, ognuno con le proprie credenze. Mi sono guardata dentro, sapete, così tante volte da scomparire. Le scarpe… sono infilate. Non vedete che danzo dalla testa alle caviglie?! Una gamba dritta e l’altra arcuata, le braccia libere di disegnare, la testa in bilico pronta a cadere. No, non lo vedete, non lo vedono neanche i miei occhi… non ci sono specchi. Or dunque, chi sono? La risposta cambia continuamente… diamine, gente! non esistono certezze e manco verità tutte intere. Ogni mio passo, con queste scarpe, passo dal plurale al singolare. Ti ho scelto. Sì, proprio tu che stai leggendo. Guarda le mie scarpe mi hanno portato tra le montagne e l’acqua corrente. Guardale bene: sono le protagoniste.
Giulia è il mio nome. Giulia per girarsi. Giulia un indirizzo, una cartolina spedita, un numero nell’elenco telefonico. C’è una cosa che ti voglio dire, spedita come un sms, e te lo voglio precisare: quando incontro te tendo a scordare il tuo nome… e pure il mio. Vuoi sapere il motivo? Se parlo con te e condividiamo questa veloce esperienza, in questa conversazione leggera come l’aria, diventiamo inevitabilmente parte integrante della trasparenza. Per forza, santi numi! per sentire ogni briciola, ogni granello, ogni microbo che compone interamente tutta l’esistenza.


martedì 6 dicembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (16)

In questa specie di semisogno che mi consente di osservare il disegno della montagna, tanto bizzarro, tanto realisticamente a forma di fantasmi, tutto l’essere mio risponde al dettaglio, di un ambiente di cui mai prima di adesso avevo presente; quella cosa che io potrei chiamare me medesimo, si fonde con le figure misteriose delle vette. E quanto più sostanziale, quanto più solido diventa il nocciolo di me medesimo, tanto più stravagante diventa la realtà vicina che mi sta sovrastando. Lo stato di tensione si è disegnato così sottilmente che l’introduzione di una sola particella estranea potrebbe sconquassare ogni cosa. In una frazione di secondo sto provando quella estrema chiarezza della conoscenza, ovvero, perdere completamente l’illusione del tempo e dello spazio: il mondo spiega il suo dramma simultaneamente, lungo un meridiano. In quella specie di eternità, arrischiata come in punta al grilletto più sensibile di una pistola, sento che ogni cosa ha la sua giustificazione, la sua giustificazione suprema: sento le guerre, i delitti, la miseria. Sul meridiano del tempo non c’è ingiustizia, ma l’illusione della verità e del dramma. Trovandomi faccia a faccia con l’assoluto, mi avvolgo nel miracolo di essere pronto a guadare il fiume della vita, per sopportare l’umiliazione e lo sfacelo. Soltanto idee pallide. E così io penso che miracolo sarebbe se questo miracolo che l’uomo aspetta in eterno si dimostrasse di essere solo queste immobili vette che sembrano fantasmi, perché il miracolo sarebbe il sogno di immaginare qualsiasi possibilità che nessuno ha mai immaginato e che probabilmente non immaginerà mai più. Per settimane e mesi, per anni, anzi per tutta la vita, io ho atteso che qualcosa succedesse, un evento intrinseco che alterasse la mia vita, e ora all’improvviso, ispirato dall’assoluta disperazione di ogni cosa, mi sento sollevato, come se mi avessero tolto dalle spalle un grande peso. Lasciarmi andare, non fare la minima resistenza al destino, in qualsiasi forma si presenti. Nulla è andato distrutto solo le mie illusioni. Sono intatto. Il mondo è intatto. Ai limiti estremi del mio essere spirituale ho ritrovato me stesso, nudo come un selvaggio. Se vivere è il meglio che ci sia allora divento una belva. Finora ho accettato di salvare la mia pellaccia preziosa, ne ho abbastanza, ho raggiunti i limiti della sopportazione, non posso ritrarmi più indietro, il passato è morto. Se c’è qualcosa rimasto alle mie spalle, dovrà scomparire ogni volta che mi giro. Sono vivo. Il mondo da cui mi sono staccato è un serraglio. Erompe l’alba del nuevo sol, ho superato la giungla, il buio, gli spiriti con gli artigli aguzzi, e sono pronto per azzannare con determinazione i miei inizi.
Solange, ho ancora la tua pallottola nel mio corpo…



Continua…


lunedì 5 dicembre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (15)

La barca entra nella giungla. Ho dormito per giorni, poi ho preso la via. Ho fatto vedere la moneta a un indio e lui mi ha fatto cenno di seguirlo. Solange è svanita, solo un ricordo, che mi brucia, un dolore alla spalla: il soccorso, la cura. La barca entra nella giungla, e io ho già dormito troppo. Chissà dove mi porta! L’indio mi dice qualcosa e con il dito mi indica la zona, lo guardo negli occhi: non so se sono stolto o perso nella sua anima. La barca sparisce nella giungla. La fitta vegetazione si prende la scena e ci avvolge nel buio dell’Amazzonia. Verde, tutto verde, verde speranza: la barca danza. Sprazzi di finissime luci si insediano intorno, formando una gabbia. Prigionieri viaggianti: vorrei aggrapparmi ad una sbarra, ma lei mi attraversa, tutto mi attraversa, il mio corpo viene diviso in verticale da fasci di luce. Pezzi di me si staccano e poi ritornano.
- Es esto “un nuevo sol”? - chiedo all’indio porgendogli la moneta.
Lui si fa un’alzata di spalle. Non so se ha capito l’antifona. La pistola è sempre infilata dietro la schiena. La barca va verso il buio più fitto, una specie di galleria: quando entro non vedo più niente, mi agito, ma resto composto, il mio cuore aumenta, lo sento in gola e nella caviglia, ad ogni colpo la barca ondeggia, allungo le mani sul bordo, mi tengo, tra un po’ si rovescia: l’angoscia, non riesco a dire nulla, ho perso la parola, vorrei urlare qualcosa, ma niente, niente di niente, il mio cervello si è spento: solo la paura: è accesa: potesse almeno illuminare la rotta, non so perché mi viene di chiedere aiuto alla mamma, oddio, perché non riesco più a muovermi, perché le mie braccia sono pezzi di legno, ma sto respirando? Fatemi uscire al più presto, sto tremando, non esisto, ecco, non esisto, non sono più io: coscienza, solo coscienza, mi turba, mi annienta, aiuto, aiuto, prego, prego tanto, perdono, salvami, ti prego, mi dispiace, quando finisce… Scorre la barca, unica certezza: il movimento, da qualche parte vado, stai tranquillo, ci sono io, questo buio è quasi finito, non ci credo… una piccolissima luce in fondo: davvero, diventa sempre più grande: davvero, ritorna il sangue: davvero, ritorna il sereno: davvero, il cuore regolare: davvero, la luce è più forte: davvero, mi acceca: davvero, sono sfinito: davvero, sono fuori: davvero, e l’indio è sparito: davvero.

continua...


Penelope


Penelope è greca. È una ragazza sportiva, fa triathlon. Un giorno un tizio s’innamora perdutamente di lei. È uno che viaggia molto e si chiama Ulisse. Ulisse sa pedalare e correre ma con l’acqua non ha un buon rapporto. Spesso ha rischiato di annegare in passato. A Penelope non importa, solo che quando lui si presenta col salvagente, non lo sopporta. Quando fanno l’amore, però, Ulisse sbaglia sempre il nome, è un tipo distratto, ogni tanto la chiama Circe, ogni tanto Calipso.
E a lei non va giù.
- Chi sono io?
- Nessuno!
E lui si inorgoglisce sempre a questa risposta.
Un giorno Penelope invita cinque proci a casa sua a mangiare pranzo. È una brava cuoca, sa fare il porco con le vongole e il coriandolo: una ricetta tipica brasiliana di Rio de Janeiro. I proci mangiano a sbaffo e bevono litri di vino. Si sono convinti che uno di loro spodesterà Ulisse. Per un mese tutti e cinque la corteggiano, e si iscrivono a tutte le gare di triathlon con scarsi risultati, che fa dire a Penelope, quando li vede all’opera nelle loro tristi esibizioni sportive, la seguente frase:
- Ma guarda sti proci.
Allo scadere del mese si presentano tutte e cinque alla porta di casa di Penelope e provano a capire le sue intenzioni. Mentre discorrono del più e del meno, a un procio non gli sovviene una domanda ovvia da fare, dato le circostanze!?
- Mah, Ulisse?
- Chi? Il porco?