La cosa più banale da fare a Natale è quella che fai ogni
santo giorno: tornare a casa. Lo hanno detto in tutte le salse, filosofi e
scrittori di ogni era. La irrefrenabile necessità del viaggio alla scoperta di
se stessi per poi volgere al ritorno. Il mio viaggio è stato surreale perché lo
richiedeva il tempo. Questo bisogno di stare immerso tra la realtà e il sogno,
questa imperturbabile occasione di distacco tra il corpo e lo spirito: il
pensiero fantasioso e la razionalità di ciò che è vivo e vegeto. Passo tra la
gente in questo Natale strano senza neve, senza Dickens, in un luogo estivo,
vedo un albero illuminato. Ho in tasca la moneta e la pistola. Me ne voglio
liberare immediatamente. Un barbone chiede l’elemosina e la metto nel suo
cappello: cose già dette, già fatte, già scritte. E a chi avrei dovuto
consegnarla? Il nuevo sol sta in un povero cappello sgualcito. Ora la pistola
che non ha mai sparato, dovrebbe esprimersi come direbbe Checov. A cosa dovrei
sparare? A chi dovrei sparare se non a me stesso? Mi siedo su una panchina a
fianco di un bambino che gioca coi soldatini. È così attento che mi trascura. Provo
a guardare se sta combattendo. Si accorge di me e si nasconde, lui e i
soldatini, voltandomi le spalle. Bene, è ora di capire se questo tempo è
fasullo. Prendo la pistola, la porto alla tempia. Rido di gusto e premo il
grilletto. Uno sparo fortissimo ferma la piazza. Tutta la gente è immobile. Tante
statue di gesso.
- Salve! – esclama il bambino.
- Salve! – replico io.
Fingo di morire nel modo infantile per far sorridere colui
che ho accanto. La gente torna a muoversi come se nulla fosse successo. Consegno
la pistola giocattolo al bambino e mi avvio sulla strada del ritorno. Solange è
solo un ricordo, Solange è una pallottola al cuore, Solange è fuori dal tempo, Solange è la mia memoria.
- Hey, amigo
Mi giro...
Fine della storia.
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