lunedì 29 agosto 2016

Olivetti

Olivetti per me fu l’infanzia. Assistenza sanitaria, corsi di nuoto e sci, vacanze e altro ancora. Andai in tutte le colonie, a Marina di Massa in Toscana, a Brusson e a Saint Jacques in Valle d’Aosta. A dieci anni attraversai le cime bianche fino a Cervinia, scivolando con i sacchi di nylon sulle ripide innevate, a più di 3000 mt di altezza (oggi sarebbe improponibile a qualsiasi genitore). Ho conosciuto bambini di Roma e Napoli che quando videro la neve sembrava avessero visto la Madonna.
- Aò, è veramente fredda! – mi facevano coricare dal ridere con il loro dialetto incomprensibile.
Cantavamo “Juppi ja ja” mentre camminavamo, e mangiavamo zollette di zucchero con i spicchi di limone e panini al salame con il tè caldo. Un animatore, ogni sera, ci raccontava la storia dell’uomo pigna: non ricordo nulla delle sue avventure, ma so che combatteva la piovra, e ogni giorno, in battaglia, le staccava un tentacolo, uno alla volta: era un ottimo modo per farci dormire. Quindi, tutti i giorni si faceva qualcosa: sport, giochi e lunghe camminate in montagna.
Erano gli anni 70, e non è che le cose andassero bene, economicamente parlando, ma in quel contesto mi sono formato come persona forte e responsabile. Non avevo paura.
Ero convinto che l’Olivetti sarebbe durata per sempre, e che avrebbe dato lavoro a tutti, per intere generazioni. La storia purtroppo disse il contrario e quando all’età di 20 anni trovai lavoro, ebbi la fortuna di entrare in una grande azienda come la Pininfarina, che si era stabilita in Canavese, ovvero, dalle mie parti. Era la fine degli anni 80. Dopo sei mesi divenni delegato sindacale, perché c’era un posto vacante e nessuno lo voleva fare. Mi feci avanti io, convinto che in una grande azienda come quella si potesse fare delle cose interessanti per la comunità intera. Alla prima riunione con le maestranze aziendali, dopo che si erano toccati tutti i punti dell’ordine del giorno, alzai la mano e mi presentai, facendo subito una domanda:
- Scusate, come mai non c’è una biblioteca?
Silenzio. Rincarai la dose.
- Perché non fate corsi di computer e di inglese? Perché non c’è la piscina e i campi da tennis? E perché non c’è il dentista o il gastroenterologo?
Mi presero per pazzo e mi dissero per quale motivo avanzavo queste richieste.
- No, niente, ho preso spunto dal punto 3 dell’ordine del giorno, che dice “Varie ed eventuali”.
Ero il delegato delle “varie ed eventuali”, cioè quelle che non c’entrano un cazzo. Infatti nessuno mi ha mai veramente capito.
Che ci volete fare, ero ancora quel bambino convinto di non aver vissuto un sogno.
- Con la cultura non si mangia! – mi disse un giorno un operaio in mensa.
- È vero, con la cultura non si mangia – risposi – con la cultura ci si nutre, che è cosa ben diversa!

mercoledì 24 agosto 2016

Le tre e trentasette

Un paese lo riconosci dal campanile. Non c’è paese che non abbia un campanile: ma sì, quella matita a punta pronta a suonare a tutte le ore.
Mio nonno suonava le campane. Le suonava con una pietra che conservo sul davanzale. Chissà dove la raccolse, chissà perché decise che fosse quella giusta: quella per far suonare la campane la domenica mattina prima della messa.
Tre colpi notturni, e tutti dormono protetti. È l’ultima volta, poi, ha pensato bene di cadere, smosso dalla terra infame, a prendersi nel sonno lo stesso numero di vite dell’ora successiva.
Un paese lo riconosci dal campanile, chissà per quale strano motivo non si è fermato, come ha fatto quell’altro, che ha arrestato le lancette alle tre e trentasette.

giovedì 18 agosto 2016

Clair de lune


Scusa se ti entro in casa… l’ho vista aperta… la finestra… che fai? mi vien da ridere… non volevo farmi gli affari tuoi... potresti spegnere la luce... sono una stupida vanitosa… ma che ci vuoi fare sono piena... ecco una nuvola… torno subito… non vado via… il vento è stato gentile... ci sei ancora? ma qui sto parlando solo di me… bene... oh, ma guarda, stai scrivendo ogni parola... oddio… dovrei prepararmi qualcosa… non sono abituata… ho messo su la prima cosa… tu scrivi… andiamo… al massimo dopo correggiamo.
Non sono luce, anche se può sembrare
quello che vedi è solo il riflesso del sole
il buio è un grande vuoto
le stelle lontane sono candele
ogni tanto sparisco, qualche giorno
a volte sono un quarto distante il giusto
vorrei solo che mi guardassi per quella che sono
e so che lo fai, diamine, e ne sono felice
ho timore, lo so è strano
sono attratta, solo fino ad un certo punto
vieni da me, ti faccio il caffè
ah, già, poi non dormi, domani torni?
hai gli occhi stanchi
non chiudere, lasciami sdraiare
stai andando a letto, ti vedo sparire
vorrei gridare
qualcosa ci accomuna
non ti ho detto il mio nome
mi chiamano Luna.

lunedì 1 agosto 2016

Quella piccola donna che zampettava nella radura


Anni fa, ero andato con i miei genitori nelle Marche, in un agriturismo, nell’entroterra, tra le colline ondulate piene di grano di giorno e piene di lucciole notturne. Una mattina mi svegliai alle sette e uscii sul balcone a godermi il sorgere del sole. Quando sbucò, mi prese gli occhi e mi schiaffeggiò le gote. Li tenni socchiusi qualche secondo per abituarmi al suo flash accecante, poi mi voltai per difendermi e riprendere la vista nell’ombra. Quindi, mi girai di scatto e lo sfidai guardando con gli occhi spalancati il paesaggio dorato.
In lontananza vidi una sagoma femminile che correva per le strade sterrate. Zigzagava, saliva e scendeva. Aveva una cadenza precisa: passi corti e veloci. Le braccia oscillavano rapidamente come una macchina da cucire, ed era imbacuccata con diverse maglie addosso con colori differenti, una bandana in testa e un girasole in mano. Se non avesse avuto sembianze femminili avrei pensato che fosse Celentano. Pareva potesse prendere il volo come un uccellino da un momento all’altro, grazie ai raggi del sole alla schiena. Ero affascinato da quella piccola donna che zampettava nella radura e la seguivo con lo sguardo: ogni tanto spariva nella valle per poi spuntare sulla cima di una collina. Un sali e scendi di un cartone animato. Intanto il pianeta terra si mosse lentamente, come è solito fare, portando il sole più in alto, la vidi arrivare.
Era lei. Aveva 70 anni, allora.
- Sono andata a fare una corsetta.
Per la prima volta in vita mia vidi mia madre correre come una cavalletta.