domenica 28 settembre 2014

Viaggio al termine della notte

I libri andrebbero letti fino alla fine, ma non riesco più andare avanti. Ferdinand ha lasciato Molly e se n’è andato con la sua follia e con il ricordo di una bellezza infinita.
Avevi un vestito bianco come le nuvole, quel pomeriggio al lago, e sorridevi. Chissà perché sorridono tutte quelle che hanno un vestito bianco di pomeriggio al lago. Ci siamo concessi all’amore ancora un’ultima volta. Ho respirato ogni tuo poro, ho toccato ogni sporgenza delle tue ossa, e quei piccoli seni che sembravano non maturare mai. Ti dissi ciao che era un addio. Presi la strada incerta di un’esistenza senza la tua presenza scenica, un teatro chiuso in decadenza, una maschera da mettere ogni giorno. Ero lontano da casa e guidai in quel lungo rettilineo in cerca di una galleria, un luogo dove potevo entrare e poi uscire senza fatica. La vita è un lungo viaggio, ragazza, e io e te l’abbiamo fatto sulla corsia di sorpasso. Si dice così. Non ci siamo fatti mancare niente; una tavola imbandita di passione e noia, di carezze e silenzi. Ricordo i musi lunghi e quella figlia caduta spontaneamente come una pietra cade nell’acqua, e va a fondo. Ti chiederai perché una femmina, perchè le femmine sono immediate. Ho provato a immergermi nel lago di sangue ma lei era sparita nella barriera corallina. E no, non riesco andare avanti caro Ferdinand, Molly ti ha lasciato andare come si lascia andare un cane senza padrone, e tu hai seguito il tuo istinto, solo per non scoprire che avevi paura di annusare l’amore.
- No, non tornerai più… e poi non sarò più nemmeno qui…
I libri andrebbero letti fino alla fine, ma il mio viaggio non è più al termine della notte, il mio viaggio è far scorrere le pagine come scorrono le nuvole.

http://youtu.be/CKbZlthDld4

mercoledì 24 settembre 2014

Mattone


Avevo un mattone nello stomaco. Un cazzo di mattone con tutti i calcinacci. Pesava, mio dio, quanto pesava. Mi chiedevo chi cavolo me lo avesse messo. Sarà stato lo stress, parola abusata dagli specialisti che non studiano le persone. Sta di fatto che presi la decisione di correre e di sudare. Avevo Tom Waits sulle spalle che cantava qualcosa con la chitarra. Fumava come un ciminiera e ogni tanto ruttava dopo una golata di birra fresca. Avevo sto qua sulle spalle e il mattone nello stomaco, e correvo. Ma dove cazzo andavo? Quando le mie gambe non ressero più, mi fermai e mi sedetti in una panchina. Dietro di me c’era una siepe e si sentivano bambini che giocavano ridendo. Tom smise un attimo di suonare perché si stava rollando una siga. Io feci più attenzione all’ascolto e sentii un ragazzino dall’altra parte della siepe, che poteva essere un altro mondo, dire queste semplici parole:
- Vorrei che noi vivessimo così tanto da poter avere una leggera malinconia nel ricordare queste parole che ti sto dicendo adesso.
Non so a chi l’avesse dette, forse alla sua fidanzatina, al suo amico del cuore o meglio, al suo amico immaginario che non era altro che se stesso.
Tom si fece una grossa risata, tirò una lunga scorreggia che mi scosse le vertebre e suonò una canzone: non si può mai trattenere primavera. Nel frattempo, insieme alla canzone scomparse il mattone.


http://youtu.be/vgeZEdbv_m8

Adele


Il sole era alto. Lei era centrata con esso. Aveva i piedi ben saldi per terra e vide le sue ombre che assomigliavano a raggi di una ruota. Infatti si mise in moto e cominciò a ruotare. S’innalzò come una spirale nel cielo liberandosi da ogni fardello. Si sentì leggera e si mise a piroettare nell’aria. Quando il volo terminò, tornò nello stesso punto da dove era partita, e vide i suoi fantasmi esausti a terra. Li raccolse come si raccolgono le lenzuola e li spinse dentro un armadio. Quando tentò di chiudere la porta, un fantasma che non ne voleva sapere, quello più forte, le disse:
- Ma dove vuoi andare?
- Vado a vivere!
La mattina dopo ci fu un trasloco, sparirono i fantasmi e sparì anche l’armadio.


lunedì 22 settembre 2014

Time after time


Era solita vagare per i vicoli della città alla ricerca dei passi da fare. I suoi piedi erano campane regolari che scandivano il tempo remoto e annunciavano celebrazioni religiose in paesi dispersi sulle montagne. Era un mondo fragile da scoprire e da reggere. Sarebbe stato sciocco pensare che fosse simile agl’altri che per definizione vengono ritenuti autentici. C’era così tanta geografia che non sarebbe bastato una vita intera per esplorare ogni suo confine e per navigare ogni singolo mare. Le piaceva perder tempo, in quel frangente, che era lo spazio che si dedicava ai sensi, tutti quelli disponibili. Quei tragitti misteriosi li faceva ogni volta che voleva smettere, smettere di essere quella che era, anche se le conseguenze avevano un prezzo da pagare, e il suo cuore non era certo una carta di credito dove spendere il patrimonio strisciandolo come un pezzo di plastica. Il sole si nascose dietro a un palazzo. Lei chiusi gli occhi e si mise a contare camminando a ritroso. Quando arrivò a cento, si lasciò cadere, e due braccia la presero in volo. Rimase sospesa come un’amaca vuota in giardino, e si lasciò dondolare. Si sentì sollevata e si fece sollevare.
- Seguimi! – disse senza esitare.
E lui fece i suoi stessi passi e suonarono due campane.



sabato 20 settembre 2014

L'ironia


Una sera incontrai l’ironia. Aveva occhi discreti e denti dritti, perché lei non rideva a denti stretti, rideva a bocca aperta. In lei si percepiva quella piccola fiamma che provoca incendi, quelli utili a bruciare conflitti lasciando intatti i tuoi margini di benevolenza. Sapeva cogliere i tempi comici, liberare gli spazi silenziosi, e muoversi come una libellula. Potevi ritrovarti in un campo di grano che erano i suoi capelli, o a ridosso di pendici innevate che erano le sottili curve delle sue gote pronte ad aprirsi con sorrisi inaspettati. L’ironia è un regalo che ti arriva quando non è Natale, quando non è il tuo compleanno ma un incontro occasionale che non era previsto. L’ironia è il mistero che ti picchietta sulla spalla e ti dice:
- Eccomi sono arrivata!
E tu non sei neanche partito.

venerdì 19 settembre 2014

Post office


E niente, devo andare a pagare la TARI (La TASI sono esente, e di questo posso solo ringraziare Romano Prodi). Comunque, sono tre rate, ma decido di pagare tutto oggi, così non rischio di dimenticarmene. Entro in posta, e c’è una lunga coda (prima di andare in posta passo sempre dalla biblioteca a prendere un libro velocemente. Calvino aiuta molto l’attesa). Sta di fatto che in posta tutti hanno dei musi lunghi, sbuffano e si lamentano di ogni cosa.
- Ma quanto ci impiega quello! – classica frase detta sottovoce.
Nel frattempo entra un tizio disperato:
- Devo solo prendere una raccomandata!!!
- Senti, vai a prenderti un caffè e torna più tardi! – risponde con determinazione una signora sopra i sessanta. Parte un applauso generale come quando atterrano gli aerei. La signora, credo sia una assidua frequentatrice degli uffici postali. Anzi, è presumibile che venga stipendiata per dire frasi di quel genere. Una specie di servizio d’ordine, probabilmente un’esodata sotto copertura. (Non ci crederete, in questo frangente sta lavorando a maglia qualcosa di multicolore per l’inverno di qualche sfigato nipote)
Passa un’ora circa e io sono già a metà libro de “Il cavaliere inesistente”, quando vedo apparire sul display il mio numero, e ritorno a esistere.
Mi avvicino allo sportello che è una grande vetrata con la classica fessura per far passare i documenti (C’è gente che si china a parlarci lì dentro, mah!).
Niente, lei si volta - perché era di schiena – sulla sedia girevole e me la trovo davanti con un viso smagliante e gli occhi accesi (Adoro le impiegate della posta con visi smaglianti e occhi accesi) – ha anche le unghie smaltate rosse - (Adoro le impiegate della posta con visi smaglianti, occhi accesi e le unghie smaltate rosse).
C’ha, però, uno scazzo sovrumano addosso e sbuffa come una locomotiva. Miseria, tutta sta bellezza corrucciata!!! Sembra sia stata arrotolata come una palla di carta.
- Le paghi tutte e tre oggi?
Mi ha dato del tu!!!
- Ehm, sì, certo!!!
E sbuffa! Mette timbri sui fogli come se stesse schiacciando mosche fastidiose e mi chiede di firmare. Se ci fosse stato ancora Wallace in questo benedetto mondo, ci avrebbe fatto un libro sul sorriso di circostanza nei luoghi pubblici, anche se per gli uffici postali ci aveva già pensato Bukowski.
Le passo il bancomat. E sbuffa. Forse voleva i contanti?
- Vuoi i soldi? – chiedo.
Le do del tu, non è bello?
- Scusa?
- Vorresti i soldi?
- No, no, molto meglio il bancomat! – e sbuffa. Se le avessi dato il denaro non oso pensare come avrebbe reagito.
Adoro le impiegate delle poste che sbuffano. Azzardo!!!
- E lo so…
- Cosa sai?
Mi ha dato del tu!!! (Adoro le impiegate…. Vabbé s’è capito!!!)
- Anche io sbuffavo quando avevo un lavoro!
- Ehi, Ciccio, io ho vinto un concorso! (Adoro ecc… ecc…)
- Pensa, Ciccia, se non lo vincevi avresti fatto grandi cose nel mondo!
Mi sorride.
Ha sorriso!!!!
Ma perché sta cazzo di TARI non l’ho pagata in tre comode rate?

giovedì 18 settembre 2014

Noci


Sette anni. Sette anni che sto in questo cazzo di posto. Sette anni che vado a correre con regolarità nei boschi cari a Guido Gozzano, e mai che mi accorgessi che c’erano alberi di noci nel tragitto. A cosa pensavo? Al debito pubblico? Alla disoccupazione giovanile? Probabilmente ero distratto dalle seghe mentali o dalle credenze limitanti. Comunque, ne ho raccolte alcune e me le sono mangiate di gusto e con godimento sublime, dato che quelle per terra appartengono a tutti. Quello che le noci hanno di veramente singolare è che assomigliano a due cervelli che si abbracciamo, e se li guardi bene, potrebbero formare un cuore. Non ho intenzione di orientarmi verso sentimentalismi poetici, anche se il luogo lo pretende. Questi cervelli sono chiusi nei gusci e non vedono l’ora di essere liberati. Sta di fatto che ho immaginato di nutrirmi di cervelli del passato, e che cervelli!!! C’era quello più grande e ben assortito di Albert Einstein, quello baffuto e goliardico di Groucho Marx, quello splendido e ironico di Buster Keaton, quello soffice e poetico di John Lennon, quello unico e indispensabile di Jerome David Salinger e quello delicato e prezioso di Audrey Hepburn. Mi sono mangiato tutta sta gente e poi sono ripartito. Dopo 500 metri, ne ho trovato un altro, un noce maestoso e a terra c’erano centinaia dei suoi frutti. Mi sono riempito le tasche e sono corso a casa. C’era da festeggiare tutta quella ricchezza e tutti quei cervelli. Sono andato a comprarmi una bottiglia di Nebbiolo, della gorgonzola, un pezzo di salsiccia e i maccheroni. Ho fatto saltare tutto in padella. E niente, poi abbiamo mangiato io e sta gente lì. Era delizioso. John si è messo a suonare e fumare qualcosa, Groucho e Buster mi hanno fatto coricare dalle risate e Audrey mi ha baciato. e non vi dico altro.
Con tutti sti cervelli non è che ora mi divento intelligente?

http://youtu.be/BOByH_iOn88
http://youtu.be/05QZyBZtVr8

http://youtu.be/f-y36kHok4U

http://youtu.be/yRhq-yO1KN8

mercoledì 17 settembre 2014

Rengim


Sembrava scossa in assenza di elettricità. Rifletteva sotto mentite spoglie di antiche piante, la differenza che c’era tra il verde e le ombre. La panchina era di sbieco perché le pietre erano sconnesse, messe lì in disordine da un primitivo disgelo. Tutto era nel posto sbagliato al momento giusto. Mi sedetti accanto perché non sapevo fare altro. Cercai, con lo sguardo, una via d’uscita nella sua capigliatura, mentre lei contava le pietre attraverso la lente scura. Non si accorse di me fino a quando non vide la mia ombra scottarle la pelle come la brace.
- Ho un dilemma!
- Sono la tua nuova fiamma!
I suoi capelli accesero me e spensero la luce.

Sementi


Molti mesi erano trascorsi da quando avevo seminato briciole in un campo fertile. A quel tempo la terra fu rivoltata come un corpo svenuto, giusto per dare respiro a piccole sementi, lanciate a manciate come si gettano i sentimenti. Attesi nel campo delle mie possibilità la luce del sole, il passaggio di un’atmosfera selvaggia, lo scroscio improvviso della pioggia. Quando vidi il germoglio, vidi un figlio; nato fragile in un corpo duttile. Quando sentii il profumo acerbo, i colori presero vigore con impegno e ogni pianta mi regalò quello di cui avevo bisogno. Mi alzai, e andai a realizzare quello che già possedevo. Non lontano da lì, un uomo con le ali, si prese la briga di volarmi intorno. Dopo alcune virate, rimase sospeso.
- Puoi mangiare tutto, non c’è alcun frutto proibito, esiste solo l’infinito.
Mi accorsi che non era il paradiso, ma un semplice luogo dove tutto veniva partorito.
- Chi mi ha nutrito? – chiesi perplesso.
- Nient’altro che te stesso!

domenica 14 settembre 2014

Il taglio finale



- Quello che c’era da dire è stato detto.
Esordì così. Si era appena seduta accanto a me e io manco la conoscevo. Una frase del genere andava bene alla fine di un film già visto o al culmine di un’accesa conversazione quando si tenta di spegnere il discorso. Invece, me l’aveva spiaccicata in faccia così, senza tante storie. Presi il mio taccuino e scarabocchiai idee sbagliate. Feci disegni astratti e scrissi quello che c’era da scrivere. Lei mi osservò per qualche minuto, poi prese la pagina e la strappò con un colpo secco. La fece a brandelli. Le parole vennero scisse in lettere solitarie e le righe continue diventarono tratteggiate. Lanciò in aria i pezzettini che si misero a volare dove osano solo i coriandoli. Nevicò carta straccia: piccoli fiocchi che caddero ai nostri piedi. Il vento se li portò via e li sparpagliò nel mondo come frutti acerbi. Feci quello che c’era da fare, e andai avanti così con tutti i verbi.



http://youtu.be/2e-yO6_FbtI

martedì 9 settembre 2014

Le crepe dei muri


Un giorno di molti anni fa, mio padre seminò piantine di pomodori nell’orto, cosa che faceva abitualmente ogni anno. Non so perché mi sovviene ora questo ricordo, perché non c’è nulla di particolarmente interessante da raccontare in una solanacea. Invece, quello che accadde qualche settimana dopo, fu qualcosa di veramente magico per non dire miracoloso. A dieci metri di distanza, in una insenatura tra il muro e l’asfalto della strada, che divideva la casa dall’orto, spuntò un ramo che produsse i migliori pomodori del mondo. Probabilmente una radice intraprese un percorso fuori dal comune e andò a cercare una nuova via d’uscita, che trovò in una piccola strettoia tra il cemento e il catrame. Dieci metri. Dieci metri dove scorrevano solo automobili e camion. Chissà cosa accadde lì sotto! Durò solo quella stagione, ma i pomodori li ricordo ancora adesso: il loro sapore, il loro intenso colore, la loro semplicità di stare aggrappati al muro, crescendo con una leggerezza degna di un cuore di bue. Ora immagino questa storia per certi versi assurda, e penso all’eventualità che le cose migliori accadono quando esci dai tuoi confini di sicurezza, quando esplori zone sconosciute, quando ti fidi delle tue ombre, quando le cose che ti passano davanti non sono più invisibili.
- Che cosa vedi, quindi, di preciso!
- Le crepe dei muri.

domenica 7 settembre 2014

Le cassiere del supermarket 2

Dialogo con cassiera del supermarket. (Adoro le cassiere dei supermarket)
- Hai figli? - mentre mi porge delle figurine.
- Non lo so... Ne ho fatte di cazzate...
Lei ride forte, bene! (Le cassiere dei supermarket sanno ridere bene)
- Comunque - prosieguo - un figlio andrebbe fatto con la prima che capita!
- E no, un figlio va programmato.
- Io non sono informatico.
(Le cassiere dei supermarket programmano figli)
 

venerdì 5 settembre 2014

Mille passi


Avevo un tulipano rosso in mano e un fiore all’occhiello.
Giravo per il parco in smoking, guanti bianchi e in testa un cilindro.
Chiusi gli occhi e contai mille passi.
Quando arrivai a duecento ebbi timore di un imminente impatto,
quindi decisi di percorrere gli altri ottocento come un gatto.
Misi il fiore in bocca e a quattro zampe completai il percorso.
Novecentonovantotto, novecentonovantanove, mille! Eccomi al punto!
Aprii gli occhi, e vidi davanti a me una ragazza vestita da sposa, a un millimetro dal mio naso. Restammo ad annusarci ben bene tra la zona del collo e l’assurdità del caso.
Ascoltai il rumore della sua pancia che gorgogliava come la mia in una tempesta.
Chiudemmo ancora gli occhi e ci facemmo la festa.
Naso a naso, tempia a tempia, guancia a guancia.
La sua bocca sapeva d’arancia.
- Ma tu, tutto questo, te lo chiedi?
- No! M’innamoro così, su due piedi.

martedì 2 settembre 2014

Lady bird


- Sto da Dio!
Questo era quello che disse.
Era arrivata svolazzando come un uccellino azzurro, perché la sua gonna larga formava due ali coi piedi per terra. Si sedette accanto a me, e mi diede un bacio veloce sulla bocca in segno di saluto. Era fresca come la birra appena spillata e la sua schiuma mi restò sulle labbra. Fece un lungo sospiro e spalancò gli occhi, che si gonfiarono d’aria come due palloncini. Il suo respiro era così intenso che si prese tutta l’aria intorno. Tenne il fiato e sorrise, gonfiando le guance. Dentro di lei tutto l’ossigeno del mondo e dentro di me: il profondo. Rimanemmo a guardarci non so per quanto tempo, lei viveva e io stavo morendo. Arrivammo al limite e poi lo superammo. Quindi, mi soffiò in faccia il vento e io fui resuscitato dal cemento.
- Devi avere fiducia!
- Stavo soffocando!
- Tu stavi solo pensando!

http://youtu.be/ta4rHfgxarI