martedì 24 febbraio 2015

Baffi

- Pà, siediti sulla panca che ti faccio una foto.
- Perché?
- La mando a uno che scrive storie.
- Sai che storie!!!
Si sentì il tipico rumore dello scatto, mentre lui guardava un punto preciso della terra, dove germogliano le storie. Aveva voglia di inventarsela lui una storia di sana pianta. Una storia che parlasse dei suoi baffi. 
“Sono già nato così. Sono venuto al mondo con i capelli sulla bocca. Li ho sempre utilizzati per catturare la neve e la pioggia. C’è stato un giorno in gioventù che avevo deciso di tagliarli, ma per fortuna non lo feci, perché baciai quella ragazza un attimo prima di recarmi dal barbiere a radermi, solo per vedere come sarei stato nudo tra il naso e il labbro superiore. Il gusto di quel bacio si impregnò così bene nei bulbi dei peli, che ogni volta che li sfumavo con le forbici, le punte spruzzavano il suo profumo: il profumo di lei e di nessun altra. Lo fa ancora oggi, malgrado siano passati molti anni. È per questo che tengo i baffi, per respirare l’amore di una donna: che è come la campagna, che è come la terra, che è come una storia inventata di sana pianta perché ha radici profonde”.
- Pà, andiamo?
Toccò prima l’erba e dopo i baffi. Li sfregò bene assieme alla terra, e poi disse a suo figlio che aveva la macchina fotografica in mano:
- Scatta questa… è l’odore di tua madre.
 

domenica 22 febbraio 2015

Gringo

Era stanco e voleva andarsene a dormire. Era stanco con gli occhi rossi e le spalle pesanti. Però, non era ancora buio, dato che l’orizzonte stava prendendo fuoco. Quindi, prese la chitarra e si mise a suonare qualcosa di colorito, qualcosa che aveva a che fare col cielo. Diede un sorso di birra che sapeva di whisky e spense la sigaretta con il tacco del suo stivale. Aveva nel dito medio un ditale, perché a lui piace scivolare. Prese a suonare sulla sedia a dondolo davanti a ...una strada piena di polvere. Oscillava e scivolava. Sembrava che dormisse sotto il suo cappello. Passò un Cherokee a tutta velocità, e lui alzò il dito medio, quello col ditale. Tre avvoltoi si avvicinarono incuriositi, ma volarono via, quando lui sputò verso di loro. Niente cadavere per i pennuti. In lontananza il deserto. In lontananza qualcuno camminava barcollando verso la sua casa. Aveva sete. Aveva un contenitore di plastica vuoto. Aveva le scarpe consumate e un cappello simile al suo. Teneva la testa bassa. Strisciava i piedi e teneva il tempo a ogni suo slide.
- Mi piace quello che suoni, gringo!
Lui non rispose a quella voce di ragazza appena uscita dall’inferno.
- Hai dell’acqua?
Lui fece il gesto con la testa per invitarla dentro e lei oltrepassò la porta di ingresso. Si sentì il rubinetto che scorreva e il rumore della faccia della tipa che sbatteva sull’acqua. Dopo qualche minuto, lei uscì rinfrescata e si sedette sul gradino. Si asciugò il viso con una bandana di color nero.
- Sai, ho passato una settimana di merda.
Lui continuò a suonare e a dondolare.
- Ehi, dico a te. Ce l’hai la lingua?
A quel punto interruppe la sonata, si alzò leggermente il cappello e la vide bene. Fede di sì con la testa, abbassò il cappello e riprese a suonare.
Lei si alzò, spazzolò il cappello e tirò fuori un paio di sigarette. Le accese. Una gliela mise in bocca a lui che sembrò gradire. Si bevve quello che restava della birra che sapeva di whisky e si pulì la bocca con la manica della camicia.
- Senti, gringo, io scivolo dentro.
Lui fece di no con la testa.
- Sono a pezzi, gringo!
Spostò gli occhi verso di lei e la fissò bene. Si guardarono per un paio di minuti. Due minuti che somigliavano a due secoli. Poi lui fece di sì con la testa, e sempre con la testa le fece il gesto di entrare. Lei fece un inchino come per prenderlo per il culo e lo ringraziò con un bacio sulla guancia. Quindi, entrò in casa.
- Mi piace quello che suoni, gringo!
Oscillava e scivolava con la sua sedia a dondolo e la sua chitarra in mano, mentre nel cielo il fuoco si spense, e tra l’ululato di un coyote solitario e il gracchiare di un corvo, si accese la luna come un grosso lampadario.

mercoledì 18 febbraio 2015

Miami vice

Da ragazzotto compravo vinili senza avere uno stereo. Non ho mai comprato uno stereo. Non so perché non ho mai messo i soldi da parte per quell’aggeggio prezioso. Forse non volevo che si
consumassero. Avere quel cartone quadrato col disco dentro era come possedere un Graal: era un dipinto, un libro e un’armonia allo stesso tempo.
Perché il vinile si può sentire in entrambi i lati, i CD ne devi fare due.
Succedeva che mi presentassi a casa di amici con un disco sottobraccio chiedendo a loro di poterlo ascoltare. Qualcuno mi rispondeva che era meglio che avvertissi prima di giungere alla loro porta, dato che esistevano i telefoni. Allora non c’era il cellulare, quindi pensavo che fosse sempre una bella sorpresa presentarsi senza avvisare. Poi, con un vinile…
Da quand’è che non suoniamo più a una porta senza avvertire?
Un giorno, un sabato pomeriggio, andai in motorino da una mia amica che apriva molto volentieri le porte chiuse, con un vinile di una serie televisiva in una grossa busta di nylon. Non so perché comprai quel LP, mi piaceva il telefilm “Miami vice”. C’era sto pezzo strumentale di Jan Hammer “Crockett’s them” che fischiavo in continuazione. È inutile dire che mi immaginavo di essere sto infiltrato di nome Sonny. Mi presentai tutto di bianco: giacca, maglietta, pantaloni e le espadrillas. Mi mancava solo la pistola.
Quel giorno, Loredana, mi aprì la porta.
- Ti va di sentire un pezzo? – le chiesi.
- Di che si tratta?
- Miami…
Limonammo sul divano fino a consumarci, e le toccai le tette, l’unica cosa che mi permise di fare.
- Senti, domani mi porti Christopher Cross?
- Ce l’ho!
Andai a comprarlo.
 

martedì 17 febbraio 2015

L'appuntamento

- Ciao. Mi chiamo Gina.
- Davis?
- Chi?
- Scherzo!
Era uno scambio di sms. Non sapevo chi fosse Gina, non l’avevo mai incontrata. Incominciai a conoscerla bene con le sue assenze. Cioè, nel senso che Gina mi dava appuntamenti senza presentarsi. Una volta mi mandò sulle scale di una chiesa alle due di notte, un’altra in cima alla collina della città dove si vedeva il panorama. Non si presentò mai. Dopo la decima volta presi a farmene una ragione, anzi, speravo non venisse più, dato che l’avevo immaginata sempre in modo diverso un centinaio di volte, facendomela diventare sempre più bella. Non volevo scoprire che poteva essere una delusione. Avevo la percezione che lei mi guardasse di nascosto, in qualche luogo non distante, magari con un binocolo. Un giorno però, sulle strisce pedonali, un posto inusuale per un appuntamento, si presentò Vivian, una sua amica di lungo corso.
- Senti, Gina ha mandato me. – mi urlò in mezzo alla strada tra i rumori dei clacson di autisti furibondi.
Le feci presente che forse era meglio spostarsi, e acconsentì, e ci dirigemmo verso una panchina.
- Vaffanculoooo! – sbraitò verso di noi un tizio abbassando il finestrino col dito medio in evidenza.
Ci sedemmo e ci guardammo come due bambini scappati di casa. Lei aveva i capelli biondi e io gli occhi azzurri.
- Gina è fatta così –, mi disse.
- Non sarà mica un cecchino? - chiesi con timore.
Vivian si mise a ridere di cuore.
Fu così che, da quel giorno, io e Vivian ci frequentammo per molto tempo, fino a quando non facemmo l’amore in un vigneto, il classico luogo d’appuntamento di Gina. Quel giorno di sole non resistetti agli occhi di Vivian, che assomigliavano a due vasi comunicanti di laghi artificiali. Infatti, ci scambiammo l’acqua con la bocca e il sangue coi genitali.
Dopo quel giorno, però, Vivian sparì, e Gina smise di scrivere.
Ero affranto. Avevo probabilmente distrutto la loro amicizia. L’avevo veramente fatta sporca.
Passarono alcuni mesi, poi mi arrivò un sms, mentre percorrevo la via centrale tra i portici e i negozi.
- Girati.
Mi girai di scatto, e vidi Vivian con un gran pancione. Rimasi a bocca aperta e feci una domanda idiota.
- E Gina?
- Sì, è una femmina.

Invisibile

Sentii, improvvisamente, dell’aria mulinante a ridosso della nuca, e mi voltai. Una tizia, fiondata da chissà dove, girovagava nel prato con atteggiamenti inconsueti per le menti chiuse. Infatti, camminava con i palmi delle mani rivolte verso la terra e le braccia a ridosso dei fianchi, come se fosse in cerca di qualche vibrazione, che ne so, in cerca di giacimenti interni. Muoveva le dita come un’esperta pianista e ruotava il corpo e il collo come un’abile torero. Mistero. Sembrava come quei bagnanti partiti dalla spiaggia che raggiungono il mare a livello dei glutei e sentono con le mani la temperatura dell’acqua prima di immergersi. Giocava con l’aria come una danzatrice africana al rallentatore.
- Non senti quanto è pieno il vuoto? – mi chiese.
- A me il vuoto mi inquieta! – risposi.
- Abbi fede!
Muoveva con dolcezza gli arti superiori come si muovono i pistilli nei fiori. Davvero sapeva riempire l’invisibile rendendo inutile la materia intorno come si passa dalla notte al giorno. Notavo, in alcune circostanze veloci, uscire dalle sue dita, nuvole bianche di fumo che scomparivano all’istante come particelle quantistiche che sfuggono alla logica. Le mie percezioni vennero irradiate da fotoni invisibili, poi decodificati dalle mie cellule, che prima di quel giorno, stavano a cazzeggiare e a fare sempre le stesse cose. Quel modo di stare nel mondo era diverso dal quotidiano vivere insicuri, e provai anche io a fare la stessa cosa pensando di trovare la mia profonda miscela di idrocarburi.
- Non sento niente! – dissi.
- Ma non senti quanta energia?
- No!
- È perché vuoi capire. Questo è un mondo dove si vuole sempre capire.
- E cosa dovrei fare?
- Neutro.
- Cosa?
- Scoprire.
- Che cosa dovrei scoprire?
- La creazione.   

domenica 15 febbraio 2015

San Valentino

Stavano a migliaia di km di distanza come sta il deserto con la montagna. Neppure si conoscevano dato che lei era un'oasi e lui un rifugio. Non si erano mai incontrati e non si erano mai scritti una lettera d'amore. Sta di fatto che erano sdraiati, a guardare lo schermo, programmi diversi. Fu lui il primo a sentire la voce di lei.
- Che fai?
- Guardo gente che canta e tu?
- Un film.
Entrambi stettero a riflettere su come proseguire la conversazione.
- Che programmi hai? - chiese lei con impeto.
- Diversi... - rispose lui col telecomando in mano.
- Ti va di uscire?
- Più fuori di così!!!
Quel giorno si amarono così tanto da non saperlo, anche se il dubbio rimase, dato che cadde la sabbia sulla montagna e la neve nel deserto.
 

Cisco

Cisco era fatto così. Se un tizio gli andava incontro incazzato, lui gli tirava un cazzotto. A quei tempi era meglio fare così: se dicevi due parole di troppo ti ritrovavi per terra col naso rotto. Lui non se lo poteva permettere, dato che era uno tosto, con le mani grandi come il cuore; sì, perché sapeva essere anche un sentimentale. Infatti, aveva una calma zen che era meglio non stuzzicare. Aveva anche un sacco di tatuaggi di draghi e serpenti nelle braccia e sulla schiena, e possedeva un’Harley Davidson nera. Per comprarsela non uscì di casa per dei mesi, facendo anche doppi turni di lavoro, oltre al buttafuori nelle discoteche i fine settimana.
Cisco era fatto così. Non aveva mezze misure. Un’estate al mare facemmo venti giorni di vacanza: lui ne fece dieci senza mai andare a dormire e dieci dormendo venti ore al giorno.
Lo conobbi al Bar dello sport durante una partita di pinacola.
Di solito, quelle lunghe serate a giocare a carte fino alle due di notte, iniziavano così:
- Manca un quarto!
E quella sera mi presentai io. Un po’ mingherlino e un po’ timido.
Cisco mi squadrò e mi chiese:
- Sei capace?
- Un po’…
- Mah! (Era di poche parole).
Non era molto sicuro, ma dato che non c’era nessun altro, decise che per quella sera potevo anche andare bene io. Uscimmo in coppia e lui storse il naso, come per dire che si era preso il pivello come socio. Gli feci vincere ventimila lire, e ne fu molto felice. Quella sera vidi così tanti jolly, che uno dei due avversari, detto: “Ce il lungo”, sbatté pugni sul tavolo urlando, in piemontese, furibondo:
- Te pii cul che anima! (Hai più culo che anima!)
Da quel giorno, io e Cisco, diventammo amici.
Oggi l’ho rivisto con qualche anno di più. Non è per nulla cambiato, anzi, sembra ringiovanito.
- Prendiamo un caffè?
- Dai.
- Che fai nella vita?
- Un cazzo!
- Anch’io.
- Ti ricordi di quella volta al mare quando parlammo della vita?
- Certo, che me la ricordo.
Quella notte discorremmo dell’amicizia, del cielo stellato, delle donne e del futuro. Oggi non siamo diventati quello che avremmo voluto essere, ma quella notte, credetemi, siamo stati migliori. Eravamo avanti, sognatori, e ci sentivamo bene, con la voglia di cambiare il mondo.
Cisco era fatto così. Sapeva picchiare, è vero, ma ha sempre rotto il naso ai coglioni, e non si è mai sbagliato.
Cisco è figlio unico. Suo padre ha dei lunghi baffi e gli vuole bene, come ha voluto bene a sua madre. Ha sempre messo tutto se stesso per loro.
Non la dà a vedere ma vuole bene a tutti, anche agli stronzi.
La sua canzone preferita è di Gino Paoli.
Cisco è fatto così. È uno che sa amare a modo suo. Anni fa, fece anche il prestigiatore.
Il suo cognome è Vagina, guai a prenderlo per il culo.
 

domenica 8 febbraio 2015

Polla e Lou

Ella si chiamava Polla, o meglio, Lady Polla. Era una cantante jazz di locali notturni della città. Lei si esibiva dopo le tre di notte perché prima doveva portare in giro il suo cane e fumarsi un paio di sigarette. Certe notti duettava con un bravo trombettista, un tizio pelle e ossa, che ci sapeva fare, sia con lo strumento che con la voce, da un nome molto particolare: Luigi Braccioforte. Questo nome evocava a tutti qualcosa, in una sorta di enigma da risolvere, che nessuno ovviamente ebbe mai la capacità di capire. Però, lui voleva che lo si chiamasse Lou, così tanto per mettere ancora più mistero nella sua esistenza. Polla ne era innamorata, ma non glielo disse mai, perché non voleva mischiare i sentimenti con la loro unicità artistica, poteva essere fatale. Un giorno Lou decise di partire.
- Senti Polla, io me ne vado.
- E dove vorresti andare, brutta testa di cazzo!
- Che ne so, via di qui, magari sulla luna.
- Sei il solito idealista…
- Mi sta tutto stretto in questo posto…
Era sulla soglia della porta di casa della Polla con una valigia in mano. Gli diede un bacio sulla guancia, poi si voltò e prese le scale. Lei fece l’unica cosa giusta da fare: sbattere la porta. Pianse sul cuscino lacrime amare, poi si accese una sigaretta e ascoltò della buona musica. Era fatta così, sapeva come addomesticare il dolore.
Passarono alcuni anni. Lei dopo quel giorno smise di cantare, non aveva più voce, e si mise a fare un lavoro di traduzioni di telefilm americani troppo comici per i suoi gusti.
Una notte di neve e di nebbia, Polla portò come il suo solito il cane a spasso e si sedette sulla panchina fredda. Si mise canticchiare “A foggy day” ricordando i tempi che furono. Dal fumo della notte gelida e della sua sigaretta, sbucò all’improvviso Lou invecchiato con la barba - lui che se la faceva sempre ogni mattina - con il suo strumento in mano e un cappello in testa.
- Ciao, baby!
Lei non disse nulla e continuò a cantare “A foggy day”. Lui la prese per la vita, portò la tromba alla bocca, ci soffiò dentro qualcosa che sembrava dell’ottima musica, e scomparvero nella nebbia.
 


sabato 7 febbraio 2015

Niente di che

Scriveva storie sulla neve. Aveva sto bastoncino in mano che usava come una penna stilografica. La sua dedizione era intensa perché era precisa. Aveva una cura maniacale con le lettere perché voleva evidenziare prima di tutto il suo stile, il suo carattere. Mi disse che d’estate di solito scrive sulla sabbia e anche sulle onde del mare. Una volta provò a scrivere nel cielo ma non ci riuscì, dato che non aveva mai trovato il punto di appoggio. Provai a leggere, ma la neve era ...fitta, e le parole scomparivano all’istante. Quindi le chiesi cosa stesse scrivendo.
- Niente di che! – mi disse.
Quel niente era troppo per me. Quindi provai a seguire i suoi passi standole a fianco. Feci molta più attenzione perché le appoggiai la mano sulla spalla e presi il suo movimento armonioso. Quindi, lessi storie incredibili che lei aveva vissuto, posti meravigliosi che lei aveva attraversato e persone fantastiche che aveva conosciuto. Rimasi sconcertato e la fissai.
- Niente di che! – continuò a dirmi.
- E tu? – mi chiese.
- Vendo incipit!
- E cosa sarebbe?
- Per ora niente di che.
Presi per andare via, quando lei mi prese per un braccio.
- Ci rivedremo?
- Certo, alla prossima nevicata.
- E se non nevicasse più?
- Non lo so, in qualche spiaggia…
- Domani vorrei riprovarci col cielo.
- Ci vorrebbe un bastoncino più lungo.
- È vero!!! Me lo cerchi tu?
- Sì, tanto non ho niente da fare.
- Credo di aver trovato il punto di appoggio…
Il giorno dopo lei non venne, e lui rimase col bastoncino in mano come un pescatore senza filo e senza amo. Poi, tirò su lo sguardo, e vide una scritta nel cielo.
“COME STAI?”
Lui ci pensò su un po’, poi rispose…
“NIENTE DI CHE”
 

venerdì 6 febbraio 2015

La ragazza che leggeva ogni cosa

Era una ragazza curiosa perché leggeva ogni cosa: le scritte sui muri con la vernice, le promesse sulle panchine di legno con le lame dei coltelli, i cartelli, i manifesti pubblicitari e i suoi libri nella borsa tra le bollette e i trucchi. Stava attenta a tutti gli annunci dei giornali, ai titoli in prima pagina, ai titoli di coda, ai menù nei ristoranti. Così facendo aveva sviluppato una memoria di ferro. Conosceva date, prezzi, eventi e ogni sorta di informazione. L’unica ...cosa che non voleva che le si chiedesse era un’opinione. Lei non giudicava, in quanto lo riteneva una perdita di tempo. Non faceva quegli arzigogoli discorsi che si usa fare quando ci si infervora per l’andamento del mondo e delle cose, perché a lei interessava solo raccontare. Era innamorata delle parole.
- Mi scusi!
Le si avvicinò un uomo mentre lei leggeva un necrologio.
- Lo conosce? – chiese ancora l’uomo.
- Sì.
- Era una brava persona…
- Sì.
Calò il silenzio. Si guardarono per un attimo e scorsero un reciproco imbarazzo. Poi le fece per andare via quando si accorse che l’uomo aveva due scarpe differenti e la cerniera aperta dove usciva un pezzo della camicia. Lei iniziò a ridere come non aveva mai fatto. Rise di gusto fino allo sfinimento. Anche lui rideva in modo sussultorio ma meno intenso.
- È due mesi che le sto attorno, non sapevo come farmi notare.
- Mi creda, ci è riuscito. Però adesso rimetta in ordine la camicia.
E continuò a ridere fino a piangere mentre lui si tirava su la cerniera.
- Senta le va di mangiare un boccone?
- Certo, mentre andiamo le parlo del menù partendo dagli antipasti.
- Perché ha accettato?
- Perché da oggi mi sono innamorata dei gesti.


giovedì 5 febbraio 2015

L'ELOGIO AL SINGLE DI LUNGA DATA

No, perché essere single è un mestiere e bisogna farlo bene. Dovreste comprendere che un single di lunga data è una persona molto attenta. Ha innanzitutto fatto un lavoro molto intenso su se stesso e ha preso la coscienza per le palle. È vero - e lo ammettono sempre, senza nascondersi e senza vergognarsi - sono stati scottati da qualche storia importante in passato e si leccano ancora le ferite, ma per loro la parola ”importante” significa supportare e non sopportare; mica si accontentano di chissà chi che gli faccia compagnia? per quello hanno già un cane e un gatto (c’è chi addirittura ne ha due). Un single è in grado di vedere tutte le coppie di zombie che girano nei supermercati con i loro bimbi che trascinano piccoli carrelli, in una sorta di Shining collettivo. I single hanno poteri sovraumani: possono far risorgere gli altri e risorgere da tutte le ceneri. I single di lunga data sono liberi, non dimenticatelo mai. Hanno avventure molto veloci, più veloci della luce. I single sono come superman, e come superman, anche loro, patiscono la criptonite. Per i single la criptonite è l’amore. Credetemi, i single sono le persone più innamorate del pianeta, perché la maggior parte di loro è sincera. La sincerità è un concetto esclusivamente individuale per i single. Ai single da un gran fastidio che le altre coppie parlino della loro felicità, non perché non siano coinvolti nella felicità altrui, trovano banale che se ne parli; un po’ come spiegare a parole l’onestà. Per un single se parli troppo delle tue virtù, lui ti sgama subito, perché ha percezioni superiori alla media e nota in te una perdita immediata di energia. Per i single la vera storia d’amore è molti silenzi. Perché i single sono bambini, certo un po’ immaturi, ma con una gran voglia di fare follie. Quindi, magari non fanno scelte eclatanti, non si sposeranno mai, non faranno mai dei figli, ma per loro, credetemi, la vita, non sarà mai un’occasione persa.