mercoledì 18 febbraio 2015

Miami vice

Da ragazzotto compravo vinili senza avere uno stereo. Non ho mai comprato uno stereo. Non so perché non ho mai messo i soldi da parte per quell’aggeggio prezioso. Forse non volevo che si
consumassero. Avere quel cartone quadrato col disco dentro era come possedere un Graal: era un dipinto, un libro e un’armonia allo stesso tempo.
Perché il vinile si può sentire in entrambi i lati, i CD ne devi fare due.
Succedeva che mi presentassi a casa di amici con un disco sottobraccio chiedendo a loro di poterlo ascoltare. Qualcuno mi rispondeva che era meglio che avvertissi prima di giungere alla loro porta, dato che esistevano i telefoni. Allora non c’era il cellulare, quindi pensavo che fosse sempre una bella sorpresa presentarsi senza avvisare. Poi, con un vinile…
Da quand’è che non suoniamo più a una porta senza avvertire?
Un giorno, un sabato pomeriggio, andai in motorino da una mia amica che apriva molto volentieri le porte chiuse, con un vinile di una serie televisiva in una grossa busta di nylon. Non so perché comprai quel LP, mi piaceva il telefilm “Miami vice”. C’era sto pezzo strumentale di Jan Hammer “Crockett’s them” che fischiavo in continuazione. È inutile dire che mi immaginavo di essere sto infiltrato di nome Sonny. Mi presentai tutto di bianco: giacca, maglietta, pantaloni e le espadrillas. Mi mancava solo la pistola.
Quel giorno, Loredana, mi aprì la porta.
- Ti va di sentire un pezzo? – le chiesi.
- Di che si tratta?
- Miami…
Limonammo sul divano fino a consumarci, e le toccai le tette, l’unica cosa che mi permise di fare.
- Senti, domani mi porti Christopher Cross?
- Ce l’ho!
Andai a comprarlo.
 

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