venerdì 21 ottobre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (2)


Ho appena sellato l’equatore, sono a cavallo. Ho trovato una stanza dove dormire, c’è il minimo necessario: un letto e un crocifisso al muro. Sono sulla strada centrale della città come un equilibrista sul parallelo: mi butto sul tropico del cancro o su quello del capricorno?
“La terra è ondulante” è la teoria degli spiazzati.
La terra è piatta e la palla è rotonda, la teoria dei cazzoni.
Quand’ero bambino, una volta giocai in porta. Ci fu un rigore contro. Mi misi sulla riga dritta dell’equatore tra i due meridiani, con le braccia aperte, le ginocchia piegate e i guanti più grandi delle mie mani. Lui guardò a destra e tirò quella cazzo di palla a sinistra. Ci cascai a quella stronzata di finta, e mi spiazzò, ma la palla rotolante uscì di lato, a fil di palo.
Tutti e due sbagliammo direzione. Fui felice di essere andato dall’altra parte.
Cammino per la via principale, credo di essere inseguito da un equino, sento sulla schiena i suoi zoccoli sbattere sulla strada. Non  mi giro, sono armato di pazienza, perché la pazienza è la virtù dei forti, così c’era scritto su un muro dove campeggiava anche un “Dio c’è di sicuro”.
Mi nutro di tortillas, chili, tacos e la fresca cerveza del posto. Sembra che ruttare qui sia di buon auspicio. C’è così tanto ossigeno da togliere il fiato. Sono a tremila metri dal livello del mare, nessun pericolo di annegare. Ripasso nella mente la prima regola di un killer professionista: “mai fare finta di niente”, casomai guardare a destra e sparare a sinistra. Rigore, ci vuole il rigore.
È l’ora della siesta. Torno nel piccolo tugurio a riposare. Al bancone c’è una donna che asciuga i bicchieri. Ordino una tequila. Sale, limone e colpo secco, quasi come caricare una pistola e premere il grilletto. Ne ordino un'altra. Lei mi fissa come fanno i baristi che si aspettano qualcosa. Poso la moneta e la fisso. Testa o croce? I suoi occhi sono più scuri della notte ma intravvedo una lanterna. I suoi capelli sono più scuri del buio e vedo sulle punte le lingue di un focolare. La sua pelle è oscura come la foresta quando resiste alla luce della luna. Silenzio e ci ritroviamo a letto nudi, sotto le coperte: lei come il muschio, io come la roccia. Nascono funghi, raccogliamo castagne, ci pungono i ricci, le spine, ogni volta che prendiamo le more. Siamo incastrati su questa terra piatta e ondulante come i suoi enormi seni.
Poi, la mia arma bianca smette di uccidere e si ritira mestamente nel sonno dei giusti.
Apro gli occhi e il letto umido è vuoto, solo lunghi capelli sul cuscino. Mi alzo, spalanco la finestra, e una luce accecante toglie il lato oscuro. Vedo una cattedrale con due campanili: uno segna le sette meno cinque e l’altro le due meno dieci. Orari diversi, basta che fai un passo sul lato opposto e soffri immediatamente una sorta di jet lag, la sindrome del fuso orario. Mi piace, cazzo, se mi piace ammazzare il tempo, ora che sono due i pistoleri. Inizia il duello.
Sento bussare alla porta, entra lei, la donna della notte che mi era apparsa in sogno.
- Bienvenido a Quito, hombre.
- Quito dónde está?
- En todo el mundo!

continua...


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