La nuvola si adagia gentile sul seno materno della terra, un
coperta bianca lo avvolge lasciando scoperto il cucuzzolo, che spruzza altre
nuvole come il latte, un vulcano di lava bianca, un’esplosione di nubi che si scaraventano
disordinate nell’aria come pezzi di stracci stropicciati sorretti dal vento. Il
cielo contiene gli strappi tra le veloci insenature azzurre che si formano:
spiragli, pupille che mi fissano, mia madre che mi tiene in braccio. Un’aquila
stringe in bocca un grosso verme, si guarda intorno come se nulla fosse,
appoggiata sulla cima come una vedetta che ha beccato l’invasore. Ma dove
volevi andare? Ti sei mimetizzato nella radura, ma lo sai che i miei occhi
vedono meglio di un satellite? Non ho idea di come sia arrivato fino a qui, me
lo sono chiesto, e se lo è chiesto anche il verme. Ho camminato, questo è vero,
me lo dicono le mie gambe, il mio acido lattico, i tempi morti, il cuore
immobile. Il vero disastro è aver qualcosa da dire, ogni giorno trovo un motivo
diverso per vivere e per amare. Se la realtà è questa, tanto vale prendere la
pistola e sparare all’aquila per salvare il verme. Ma la realtà è un’altra ed è
sempre diversa. Una questione di interpretazione. L’aquila vola via, si libra
tra gli stracci, aprendo le ali in segno di vittoria. Squarci, nobili feritoie
blu, antiche imprese di cui andare fiero. Vivo costantemente in due orari
diversi, nell’ambiguità, nell’ubiquità, io qua, io là, sfoggio del mio ego,
sfogo del mio io. Sono già stato dove sono adesso, un modo per esplorare ogni
mio ritorno. Eccomi qua, al seno materno per ritornare fanciullo. Mi viene da
piangere perché ho fame, mi viene da ruggire perché sono all’arrivo. Che cosa
ho fatto quando sono uscito? Qual è stato il primo boccone amaro? L’ossigeno.
Lo prendo tutto di un fiato, il sangue inizia a scorrere, irrora ogni
centimetro di muscolo, ogni angolo del mio cervello, metto in moto lo spirito,
l’anima, l’intelligenza, l’origine della mia esistenza. Sono piccolo, tanto
piccolo e indifeso che potrei essere scaraventato nel cielo e poi ripreso; un
gioco divertente, che mi fa ridere di gusto, da perderci il fiato. Lo sentite
ora il neonato? Quanto ci piace il rumore del suo ridere, un suono soave per le
nostre distratte orecchie riempite dal traffico, dalle parole inutili, dalle
preoccupazioni, dalla falsità delle nostre certezze, solo opinioni, stupide
congetture del vivere, del comportamento, dell’educazione. Non c’è educazione
all’origine, quello che sei in quell’istante, è qualcosa che si muove, e che ha
voglia di ridere.
- Hola, Hombre!Non mi giro. Me ne vado velocemente.
- Hombre…
Aumento il passo. Sono un killer, ho un obbiettivo da svolgere, non mi devono scoprire.
- Hombre… hombre…
Corro.
- El arma, hombre.
continua...
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