mercoledì 26 ottobre 2016

Viaggio al termine dell'incipit (3)


La nuvola si adagia gentile sul seno materno della terra, un coperta bianca lo avvolge lasciando scoperto il cucuzzolo, che spruzza altre nuvole come il latte, un vulcano di lava bianca,  un’esplosione di nubi che si scaraventano disordinate nell’aria come pezzi di stracci stropicciati sorretti dal vento. Il cielo contiene gli strappi tra le veloci insenature azzurre che si formano: spiragli, pupille che mi fissano, mia madre che mi tiene in braccio. Un’aquila stringe in bocca un grosso verme, si guarda intorno come se nulla fosse, appoggiata sulla cima come una vedetta che ha beccato l’invasore. Ma dove volevi andare? Ti sei mimetizzato nella radura, ma lo sai che i miei occhi vedono meglio di un satellite? Non ho idea di come sia arrivato fino a qui, me lo sono chiesto, e se lo è chiesto anche il verme. Ho camminato, questo è vero, me lo dicono le mie gambe, il mio acido lattico, i tempi morti, il cuore immobile. Il vero disastro è aver qualcosa da dire, ogni giorno trovo un motivo diverso per vivere e per amare. Se la realtà è questa, tanto vale prendere la pistola e sparare all’aquila per salvare il verme. Ma la realtà è un’altra ed è sempre diversa. Una questione di interpretazione. L’aquila vola via, si libra tra gli stracci, aprendo le ali in segno di vittoria. Squarci, nobili feritoie blu, antiche imprese di cui andare fiero. Vivo costantemente in due orari diversi, nell’ambiguità, nell’ubiquità, io qua, io là, sfoggio del mio ego, sfogo del mio io. Sono già stato dove sono adesso, un modo per esplorare ogni mio ritorno. Eccomi qua, al seno materno per ritornare fanciullo. Mi viene da piangere perché ho fame, mi viene da ruggire perché sono all’arrivo. Che cosa ho fatto quando sono uscito? Qual è stato il primo boccone amaro? L’ossigeno. Lo prendo tutto di un fiato, il sangue inizia a scorrere, irrora ogni centimetro di muscolo, ogni angolo del mio cervello, metto in moto lo spirito, l’anima, l’intelligenza, l’origine della mia esistenza. Sono piccolo, tanto piccolo e indifeso che potrei essere scaraventato nel cielo e poi ripreso; un gioco divertente, che mi fa ridere di gusto, da perderci il fiato. Lo sentite ora il neonato? Quanto ci piace il rumore del suo ridere, un suono soave per le nostre distratte orecchie riempite dal traffico, dalle parole inutili, dalle preoccupazioni, dalla falsità delle nostre certezze, solo opinioni, stupide congetture del vivere, del comportamento, dell’educazione. Non c’è educazione all’origine, quello che sei in quell’istante, è qualcosa che si muove, e che ha voglia di ridere.
- Hola, Hombre!
Non mi giro. Me ne vado velocemente.
- Hombre…
Aumento il passo. Sono un killer, ho un obbiettivo da svolgere, non mi devono scoprire.
- Hombre… hombre…
Corro.
- El arma, hombre.

continua...



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