Un tenue brusio fece fremere il tonneggiante lobo fino a
risalire al punto zero. Si introdusse, come un venticello di aprile, nel canale
semicircolare, spalancando con sorprendente facilità la finestra ovale, che aprì
la sua bocca stupita, risvegliando la coclea dormiente solo per dar fiato alle
trombe. Sul lobo penzolava un diapason che venne scosso ritmicamente dal
martello sull’incudine. Bastò un soffio, un’aria melodica, un’intonazione
cadente, una misura precisa, un passo morbido, un’andatura costante, una fase
della vita, e lui prese a muoversi come un petalo purpureo di una campanula o
di un picciolo fogliare di una viola. Il lobo è una minuzia appesa, un
particolare complicato, un regno di gomma che si regge su di una architettura
complessa, ovvero colei che invita il filo del suono ad addentrarsi nel
labirinto: se non stai attento, se non sei sicuro, smarrisci l’equilibrio. E io
ero lì, come un funambolo a occhi chiusi, che attraversavo il condotto
mordendomi la punta della lingua, per costringermi a provare un piacevole
dolore o una spiacevole amnesia che mi sforzai di ricordare. Intonai una lieve
musica, piccole note che flettevano le mie corde vocali di un suono gentile
appena percettibile. Volevo accedere al tuo sentire per accordarmi con te. Ci
fu un attimo che tutto filò dritto, che nulla era imperfetto. Poi, ti toccasti
il lobo, tolsi con cura il diapason e lo misi nella mia mano. Ebbi un sussulto,
un’oscillazione del corpo, quando vidi quel foro chiudersi velocemente fino a
scomparire, prima che pensassi di infilare tutto me stesso, e diventare io
l'oggetto appeso. All’improvviso, mi hai mostrato l’altro padiglione e tutto è
ricominciato da capo, tale e quale, senza sbavature, senza equivoci, senza
malintesi, il processo di rivisitazione del canestro. Ero confuso, quando ebbi
le mie mani entrambe impegnate dai tuoi gioielli, ero sconcertato,
disorientato, perplesso dal fatto che non sapevo più distinguere l’orecchio
sinistro da quello destro.
- Ascolta… - Non dire altro.
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