giovedì 23 gennaio 2014

Bar sotto casa


Quando seppi del bar sotto casa, mi alzai presto per vedere le serrande chiuse che si aprivano. Era proprio lì, bastava attraversare la strada senza strisce pedonali. Aprì la finestra per assaporare il profumo di caffè e di dolce appena sfornato. Erano anni che respiravo tubi di scappamento solo per il gusto di scappare dal sonno. Avevo addosso un pigiama buffo, come il mio viso allo specchio prima del getto d’acqua sugli occhi pieni di calce struzzo, solo per l’abitudine di mettere la testa dentro a qualche buco del cazzo. Presi gli unici indumenti appoggiati disordinatamente sulla sedia e mi stirai stirando anche loro. Scesi le scale, schiacciai il pulsante del cancello e come per magia mi trovai in una nuova storia. Un’auto passò velocemente e quasi mi investì, ed io feci un passo indietro come faccio sovente. Ripresi fiato anche se non ce n’era bisogno, e attraversai la strada come se fossi inseguito da predoni nel deserto. Entrai nel locale e venni assorbito da odori mescolati di ogni genere anche della gente intorno, che aspettava il suo turno. C’erano quattro persone perché le contai, per la mia mania di contare qualcosa nella vita. Due uomini e due donne si facevano i cazzi loro, in silenzio, distratti, non avevano voglia di scorgere occhi indiscreti, come se nascondessero o avessero perso qualcosa. Per una frazione di secondo fui la loro attenzione, come se quel qualcosa fosse improvvisamente riemerso, una svolta veloce per tornare al cucchiaino che girava nella tazzina, quella sottile dolcezza per allontanare un’amarezza antica. Ordinai il solito anche se era la prima volta: un cornetto vuoto e un caffè lungo. I due uomini e una donna pagarono il conto, che a quanto pare non era salato, e uscirono; io rimasi con lei e il barista che sembrava non esserci, come i migliori, perché i migliori baristi sono quelli invisibili. La vidi che si aggrappava alla tazzina come si tiene un calice in chiesa, quasi per chiedere una grazia o semplicemente per scaldarsi le mani da qualche goccia calda appena uscita da una miracolosa macchinetta elettrica. Aveva la pelle bianca come la luce del mattino ed era magra come un lampione notturno con la testa china. Tremava lievemente e ogni tanto tossiva, e si soffiava il naso che era rosso come quelli che si mettono i pagliacci al circo. Pagò il suo prezzo e mi fulminò quando si volse col suo sguardo, quasi per chiedermi cosa cazzo volevo. Sorrisi come sorridono i deficienti che masticano amaro e bevono ogni cosa che gli raccontano. La porta si chiuse ed io rimasi con l’ultimo sorso, e lo feci velocemente come fanno i russi con la vodka. Avrei voluto lanciare la tazzina per lasciarmi tutto alle spalle, ma non lo feci, anche se la tentazione era forte. La posai sul piattino solo per sentire quel rumore che è la tipica sveglia del mattino. Pagai il mio conto e lasciai un euro per offrire un caffè al prossimo. Quando misi la mano sulla maniglia per uscire, il barista si materializzò e sentì la sua voce risuonare tra i profumi vari del bar:

- Scusi…
- Dica…
- Perché ha pagato un caffè ad uno sconosciuto?
- Per non guardarlo negli occhi.

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