a tremare sotto le coperte
tra parole ordinate come tegole di un tetto
a comprendere dai camini ciò che fummo.
Bisogna starci dentro
ad una nevicata d’inverno
al freddo a digrignare i denti
in un soffio di spifferi gelidi
solo per tentare di incantare i serpenti.
Bisogna starci dentro
a fare una doccia senz’acqua
quando sai che è gasata
dai rubinetti che spruzzano
una squallida partita truccata.
- Un giorno l’avevo messa dentro, sai! Ci fu un rasoterra in
diagonale da un calcio d’angolo sbagliato, quei cross colpiti male. Ero fuori
area, in quel periodo non andavo a saltare. Ero al limite. Vidi questa palla
telecomandata da Dio che arrivava verso me, rotolava perfettamente, e la sua
velocità era in linea con la mia mente. Io le andai incontro come un bambino verso
la sua mamma, e l’impatto tra il mio piede e questo mondo fu un abbraccio di un
secondo, un big bang ad occhi chiusi, un tuono dopo il lampo, l’origine della
vita e dell’universo. Andò proprio lì, in quell’incrocio, dove tutti quelli che
tirano calci sognano un giorno di ficcarcelo. In quell’angolo tra i due pali
dove il ragno tesserebbe la tela, ma il ragno resto fermo con i guantoni in
mano, a pregare lo stesso Dio che potesse stamparsi sul palo. La rete si gonfiò
in assenza di vento e il pallone ribalzò aldilà della riga bianca. Corsi veloce
verso il nulla, verso spettatori invisibili che sventolavano i miei colori, perché
per un attimo avevo creduto di conoscere il futuro. Fu l’ultima partita in quel
campo prima che ci venissero a prendere gli avversari per portarci di forza in
un concentramento.
- Perché guardiamo tutti in alto?
- Aspettiamo!- Cosa?
- Non lo so. Bisogna starci dentro.
(Il venditore di incipit)
Nessun commento:
Posta un commento