martedì 27 gennaio 2015

Auschwitz


Bisogna starci dentro
a tremare sotto le coperte
tra parole ordinate come tegole di un tetto
a comprendere dai camini ciò che fummo.
Bisogna starci dentro
ad una nevicata d’inverno
al freddo a digrignare i denti
in un soffio di spifferi gelidi
solo per tentare di incantare i serpenti.
Bisogna starci dentro
a fare una doccia senz’acqua
quando sai che è gasata
dai rubinetti che spruzzano
una squallida partita truccata.
- Un giorno l’avevo messa dentro, sai! Ci fu un rasoterra in diagonale da un calcio d’angolo sbagliato, quei cross colpiti male. Ero fuori area, in quel periodo non andavo a saltare. Ero al limite. Vidi questa palla telecomandata da Dio che arrivava verso me, rotolava perfettamente, e la sua velocità era in linea con la mia mente. Io le andai incontro come un bambino verso la sua mamma, e l’impatto tra il mio piede e questo mondo, fu un abbraccio di un secondo. Un big bang a occhi chiusi, un tuono dopo il lampo, l’origine della vita e dell’universo. Andò proprio lì, in quell’incrocio, dove tutti quelli che tirano calci sognano un giorno di ficcarcelo. In quell’angolo tra i due pali dove il ragno tesserebbe la tela, ma il ragno resto fermo con i guantoni in mano, a pregare lo stesso Dio che potesse stamparsi sul palo. La rete si gonfiò in assenza di vento e il pallone ribalzò aldilà della riga bianca. Corsi veloce verso il nulla, verso spettatori invisibili che sventolavano i miei colori, perché per un attimo avevo creduto di conoscere il futuro. Fu l’ultima partita in quel campo prima che ci venissero a prendere gli avversari per portarci di forza in un concentramento.
- Perché guardiamo tutti in alto?
- Aspettiamo!
- Cosa?
- Non lo so. Bisogna starci dentro.


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